Gentile direttore,
alcune precisazioni in merito all’articolo di Giuseppe D’Urso e non perché mi chiami in causa direttamente ma per tentare di rasserenare i toni su una vicenda che solo rabbia e impotenza possono far giudicare con toni violenti e linguaggio iperbolico.
La vicenda del concorso ordinario ha gettato scompiglio in tutti coloro che hanno avuto la ventura di attraversarla nel corso della loro vita, dunque ben più dei 400 su cui qualcuno si ostina con preoccupante miopia. Lo dico perché la tentazione della guerra fra poveri è la prima e immediata soluzione che i più miserevoli d’animo ed intelletto intraprendono convinti che la ferocia delle loro armi possa di colpo lavare il mondo delle sue innumerevoli colpe. Così non è, caro dottor D’Urso. Comprendere (nell’etimo latino, beninteso) le ragioni dell’altro aiuta a superare le distanze ed è tempo che io stesso, a titolo personale in quanto non sono capo né di coordinamenti né di altro, provi a chiarire che la nostra richiesta di mantenimento dello statu quo non contrasta minimamente - e non lo ha mai fatto - con la parallela richiesta di nuove prove concorsuali per coloro che sono stati fermati alle prove scritte, alla luce dei sospetti generati da questa, va ricordato, storia.
Prendo per provocazione dialettica quella del dott. D’Urso che ripetutamente sottolinea le cose che dovrei sapere come dirigente e che lascia intendere io non sappia e lascio ancora una volta a lui, che so uomo di intelletto, cogliere il reale senso delle mie parole. Se l’animosità non avesse preso il sopravvento, con più garbo ed eleganza avrebbe sicuramente evitato lo sfoggio didascalico dei più elementari principi di buona amministrazione. A lui e a tutti coloro che si trovano nelle sue medesime condizioni rivolgo piuttosto un invito ad uno scambio di opinioni al fine di elaborare una strategia d’uscita per tutti, soprattutto considerando che da uomini di scuola dovremmo sempre dare l’esempio del saper fare il primo passo. Probabilmente il clima politico, così frequentemente litigioso, rispecchia la medesima natura del Paese che lo esprime. In questo clima, allora, non potremo aspettarci dai referenti politici una reale serenità di giudizio, alimenteremo noi stessi quella guerra sotterranea, magari anche per sordidi interessi, che tutti paventiamo e che, colmi di paura, ci fa reagire scompostamente, ciechi di fronte all’urgenza di colpire chiunque pur di distrarci dal nostro individuale, piccolo dolore.
In questi giorni ho sentito tanti colleghi, vincitori e non e al solito ho constatato come per buona parte le cose siano chiare e le soluzioni possibili. Dobbiamo fidare in questa forza che è fatta di dialogo, di etica, di verità. Esiste un modo per dare a ciascuno quel che gli spetta senza rinunciare alla verità e lasciando da parte la violenza e lo scontro. Perché non darci da fare fin da subito per trovarlo? Quanto tempo ancora sacrificheremo alle nostre piccole vanità immaginandoci altissimi perché scriveremo sfogando piccole e insignificanti passioni individuali, coprendo interessi personali e oltraggiando senza pudore la dignità degli altri? A chi gioverà tutto questo? Né a lei, caro dott. D’Urso, né a me e tantomeno alle cause che le nostre piccole persone in questa triste vicenda possono occasionalmente rappresentare.
Giampiero Finocchiaro
alcune precisazioni in merito all’articolo di Giuseppe D’Urso e non perché mi chiami in causa direttamente ma per tentare di rasserenare i toni su una vicenda che solo rabbia e impotenza possono far giudicare con toni violenti e linguaggio iperbolico.
La vicenda del concorso ordinario ha gettato scompiglio in tutti coloro che hanno avuto la ventura di attraversarla nel corso della loro vita, dunque ben più dei 400 su cui qualcuno si ostina con preoccupante miopia. Lo dico perché la tentazione della guerra fra poveri è la prima e immediata soluzione che i più miserevoli d’animo ed intelletto intraprendono convinti che la ferocia delle loro armi possa di colpo lavare il mondo delle sue innumerevoli colpe. Così non è, caro dottor D’Urso. Comprendere (nell’etimo latino, beninteso) le ragioni dell’altro aiuta a superare le distanze ed è tempo che io stesso, a titolo personale in quanto non sono capo né di coordinamenti né di altro, provi a chiarire che la nostra richiesta di mantenimento dello statu quo non contrasta minimamente - e non lo ha mai fatto - con la parallela richiesta di nuove prove concorsuali per coloro che sono stati fermati alle prove scritte, alla luce dei sospetti generati da questa, va ricordato, storia.
Prendo per provocazione dialettica quella del dott. D’Urso che ripetutamente sottolinea le cose che dovrei sapere come dirigente e che lascia intendere io non sappia e lascio ancora una volta a lui, che so uomo di intelletto, cogliere il reale senso delle mie parole. Se l’animosità non avesse preso il sopravvento, con più garbo ed eleganza avrebbe sicuramente evitato lo sfoggio didascalico dei più elementari principi di buona amministrazione. A lui e a tutti coloro che si trovano nelle sue medesime condizioni rivolgo piuttosto un invito ad uno scambio di opinioni al fine di elaborare una strategia d’uscita per tutti, soprattutto considerando che da uomini di scuola dovremmo sempre dare l’esempio del saper fare il primo passo. Probabilmente il clima politico, così frequentemente litigioso, rispecchia la medesima natura del Paese che lo esprime. In questo clima, allora, non potremo aspettarci dai referenti politici una reale serenità di giudizio, alimenteremo noi stessi quella guerra sotterranea, magari anche per sordidi interessi, che tutti paventiamo e che, colmi di paura, ci fa reagire scompostamente, ciechi di fronte all’urgenza di colpire chiunque pur di distrarci dal nostro individuale, piccolo dolore.
In questi giorni ho sentito tanti colleghi, vincitori e non e al solito ho constatato come per buona parte le cose siano chiare e le soluzioni possibili. Dobbiamo fidare in questa forza che è fatta di dialogo, di etica, di verità. Esiste un modo per dare a ciascuno quel che gli spetta senza rinunciare alla verità e lasciando da parte la violenza e lo scontro. Perché non darci da fare fin da subito per trovarlo? Quanto tempo ancora sacrificheremo alle nostre piccole vanità immaginandoci altissimi perché scriveremo sfogando piccole e insignificanti passioni individuali, coprendo interessi personali e oltraggiando senza pudore la dignità degli altri? A chi gioverà tutto questo? Né a lei, caro dott. D’Urso, né a me e tantomeno alle cause che le nostre piccole persone in questa triste vicenda possono occasionalmente rappresentare.
Giampiero Finocchiaro