Mario
Luzi (Firenze, 20 ottobre 1914 - Firenze 28 febbraio 2005) venne
più volte al Liceo Classico "Pellegrino Rossi" di Massa, nel quale
aveva insegnato all'inizio della sua carriera professionale ed al quale
era rimasto fortemente legato, come gli capitava del resto per i luoghi
cari alla sua memoria formidabile. E non negava mai la sua presenza
quando lo invitavamo a discutere di letteratura e della genesi e dello
sviluppo della sua poesia o della natura della sua prassi letteraria,
nei corsi di aggiornamento che si organizzavano per insegnanti delle
scuole medie superiori. Ed egli proponeva la presenza di Carlo Bo, il
grande critico letterario, Rettore dell'Università di Urbino e Autore
dei famosi Otto studi del 1940, per aiutarlo ad approfondire e
allargare le riflessioni sui vari aspetti della vita letteraria europea
del Novecento.
Eravamo diventati amici con Mario Luzi, ed a Massa egli aveva tanti
ammiratori e sostenitori che lo hanno circondato di affetto
disinteressato anche quando non era ancora famoso e non aveva ottenuto
la qualifica ufficiale di più accreditato poeta civile del secondo
dopoguerra. La sua migliore qualità era, a parer mio, la capacità di
ascolto e di dialogo, e la difesa generosa e disperata della cultura,
della letteratura e della scuola dagli assalti sempre rinascenti della
volgarità e dell'approssimazione filologica e scientifica.
A ripensare al lunghissimo viaggio di Luzi, dal precoce inizio de La
barca del 1935 e di Avvento notturno del 1940, che segnano per sempre
la dimensione della sua poeticità fondata sia sul mondo terreno che su
quello ultraterreno in un aggregarsi profondo di stratificazioni
storiche e metastoriche, si rimane stupiti della sua produttività e
soprattutto dell'unità organica della sua creazione, dall'inizio alla
fine. E qui non esiste più la pigra vulgata dell'ermetismo luziano da
rigettare o da salvare apriori poiché si propone un itinerario
attraversato da coerenza e concludenza; e ciò per la presenza
prolungata e continua di una forte teoresi che sostiene tutta la prassi
poetica luziana e la rende omogenea, costante e comprensibile a
dispetto di chi la vorrebbe disomogenea, discontinua ed
incomprensibile.
La coerenza di tutta la produzione luziana è frutto di un costante e
profondo processo di sintesi tra la riflessione sui modi e nodi
dell'esistenza umana e sulle forme della loro espressione, e sui
contenuti religiosi, etici e metafisici della poesia e l'effettivo fare
poetico che raccoglie le istanze della teoresi e le trasferisce e le
trasforma nell'immaginario, nei simboli e nelle percezioni
paradigmatiche. Tale sintesi, che è elaborazione artistica carica di
metafore e analogie, di cui la più imponente è quella contenuta nel
Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini pubblicato nel 1994 da
Garzanti, tutto incentrato sul rapporto dialettico di immanenza e
trascendenza, essere e divenire, finito e infinito, visibile e
invisibile, fa registrare quel primo sentimento del continuo trapassare
da una condizione esistenziale ad una dimensione ontologica, nella
quale avviene quell'acquietarsi dell'esistere nell'immagine dell'eterno
che si trovava già ne La barca e che si manifesta in posizione
privilegiata, e quindi non incidentalmente, in tutte le opere maggiori:
"Il tempo adduce e porta via le forme/il tempo ci dà vita e ci
distrugge/ mentre immobile vigila l'essenza" (Villaggio da Quaderno
Gotico del 1947).Qui s'impone il tema centrale della poetica luziana,
che è l'apparizione sensibile delle cose e la loro immediata sparizione
dall'orizzonte sensoriale dell'umano per essere trattenute più
veracemente nella memoria e fatte rivivere più intensamente
nell'intelligenza come essenza del reale. Il sentimento del tempo uno e
molteplice poi sostanzia la poetica di Onore del vero che considero uno
dei punti più alti ed esplicativi della produzione di Luzi proprio per
il perfetto equilibrio tra pensiero estetico e concreto agire
"poietico" realizzato in molte liriche della raccolta edita da Garzanti
nel 1957.
Nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini emergono o, meglio,
riemergono i paesaggi dell'anima luziana, quelli strazianti della
colorata campagna senese nella Val d'Orcia attorno a Pienza, in mezzo
alle crete toscane, e "riemerge in lontane chiarità/dalle sue latebre
azzurre/e grigie, si sveglia, /terra orciana". E mentre lo sguardo cade
sul paesaggio registrato dalla sensibilità visiva e incamerato nella
vastità e profondità della memoria, l'immaginazione a sua volta elabora
altri paesaggi paradigmatici che vengono assunti quali modelli assoluti
per rendere più profondo ed abissale il distacco e più acuta e
malinconica la lontananza da quella terra piena di desideri inespressi
e di fascino nascosto. E subito l'emozione si trasforma in ideazione, e
la realtà viene svelata non solo emotivamente ma anche razionalmente.
Scavando su quel terreno con gli strumenti emozionali e razionali si
scopre la sorgente dell'intelligibile che è il vero reale, dopo aver
esperito la storia e la cronaca e aver abbandonato il mondo terrestre,
quello dell'apparenza, per accedere al mondo celeste, quello della
realtà autentica. Qui Luzi cerca la parola adeguata per rappresentare
il trasferimento dall'uno all'altro mondo: "Vola alta, parola, cresci
in profondità" (in Per il battesimo dei nostri frammenti del 1985). Ma
già nel Viaggio prende corpo e si dispiega in tutta la sua potenza e
incisività una metafisica che supera la contingenza e sfugge
all'immanenza storica e che si presenta come somma emergenza
esistenziale capace di trovare rifugio e pace soltanto dentro il suo
posto nell'assoluto.
Il Viaggio procede all'infinito, ma le tappe di stazionamento si
rendono necessarie esteticamente e permettono l'avanzamento progressivo
nella bellezza della natura e nella degustazione delle più piccole
particelle di emozioni dell'esistere, mentre l'istanza superiore
abbandona progressivamente l'abito sensoriale per andare oltre, nella
sfera pura dell'Essere, di quell'essere che è come appare, giacché
niente di ciò che è nascosto lo nasconde: "Nessuna /cattività di
simbolo/lo tiene/o altra guaina lo presidia". La proposizione
parmenidea della presenza immediata dell'Essere subisce però in Luzi
una sostanziale e vistosa revisione per la quale l'essere è e diviene
altro da sé, pur rimanendo se stesso e mantenendo tutta la sua essenza.
Esso svolge dentro di sé tutta la sua potenzialità ontologica. Di qui,
ancora, nasce la bellezza della qualità teoretica della poesia luziana
del tutto estranea ai testi poetici ottocenteschi e novecenteschi, ad
eccezione di Leopardi e Pascoli, Montale e Caproni. Anche se in Luzi
sono più evidenti i segni filosofici appresi anzitutto dalla lettura
"matta e disperatissima" dei testi leopardiani.
L 'elaborazione della poetica e l'esercizio professionale della critica
praticata intensamente per una vita intera nelle aule dei licei e delle
università non solo fanno di Luzi un critico degli autori presi in
esame (da Leopardi a Mallarmé, da Pascoli a Campana, ecc.), ma anche lo
mettono nella condizione di criticare se stesso, i suoi stessi testi,
la qualità linguistica ed estetica dei propri atti "poietici". Non è
facile, perciò, apprezzare la sua poesia, specie quando adotta misure
pseudoprosastiche, se non si entra nell'attività critica dell'Autore,
nel suo sistema intellettuale, nel suo mondo spirituale, nella sua
polemica esplicita o implicita verso quei letterati assai lontani dalla
letteratura. E se la poesia è opera di letteratura, il poeta non può
non essere un vero letterato. Viene meno così l'idea di una ingenuità
verginale e ispirata del poeta e si teorizza invece la necessità di una
tensione intellettuale e filosofica di colui che intraprende l'azione
"poietica". L'arte diventa un duro lavoro teoretico che si realizza
concretamente nella sua saldatura con l'attività e l'attualità
dell'immaginario, dei suoi prodotti e dei suoi possibili significati
più o meno incisivi, più o meno pregnanti, ma sempre imbevuti di
cultura e di filosofia. La loro verità piena è la vita dell'arte nella
sua totalità, la consistenza estetica nella sua pienezza etica e
metafisica.
In tale prospettiva, fatta di consapevolezza
tecnico-linguistico-estetica, dev'essere possibile una diversa
valutazione dell'opera luziana al di là dei luoghi comuni e delle
facili etichettature scolasticistiche, per cogliere nell'opera
artistica l'operazione estetica suggellata da una tensione teoretica
fortissima e da uno studio "disperatissimo", nel quale non è secondario
lo scavo teologico e l'approfondimento dell'ontologia
classica e moderna rivisitata alla luce dei testi paolini,
agostiniani e tomistici. Cosa che è percepibile particolarmente sia nel
Viaggio che nella Passione commissionatagli dal Papa Giovanni Paolo II
e rappresentata nel 1999 al Colosseo di Roma come Via Crucis.
Non c'è da meravigliarsi se egli accetta l'incarico, poiché
l'arte è sempre di "circostanza" e quindi è come se venisse sempre
"commissionata", e poi la Passione di Cristo è il tema centrale
della filosofia e della teologia cristiana e rappresenta in Luzi il
momento culminante e drammatico della dialettica tra finito e infinito,
tra tempo ed eternità: "Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto/è bella e terribile la terra./Io ci sono nato
quasi di nascosto,/ci sono cresciuto e fatto adulto/in un suo angolo
quieto/tra gente povera, amabile e esecrabile./mi sono affezionato alle
sue strade;/mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti;/le vigne,
perfino i deserti[...] Congedarmi mi dà angoscia più del giusto./Sono
stato troppo uomo tra gli uomini oppure troppo poco?/Il terrestre l'ho
fatto troppo mio o l'ho rifuggito?/La nostalgia di te è stata continua
e forte,/tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna[...]Sono
sulla terra per fare la tua volontà/eppure talvolta l'ho discussa./Sii
indulgente con la mia debolezza, te ne prego./Quando saremo in cielo
ricongiunti nella Trinità/sarà stata una prova grande/ed essa non si
perde nella memoria dell'eternità". Il ritmo semplice e semiprosastico
vuole esprimere in modo incisivo la durezza del terrestre e la tenace
memoria dell'umano all'interno dell'eternità e del divino. Questa è la
potenza della poesia di Mario Luzi, questa è la sua ontologia e questa
la sua estetica realistica.
In questa concezione di un poetare tutto proiettato verso la sintesi di
teoresi e prassi artistica, Luzi ha voluto teorizzare una dottrina
dell'estremo realismo fedele alla vita, al mondo, alla storia, ma più
ancora alla "metastoria", a quella dimensione per la quale non è
più sufficiente il linguaggio ingenuo, banale ed involuto ed è
invece necessario un nuovo linguaggio ultracomprensivo ed
ultraesplicativo della sfuggente profondità dell'Essere e delle tante
interrogazioni sul senso del non-essere. Lo infastidiva, infatti,
l'incapacità di entrare nelle viscere della realtà per cogliere con un
linguaggio meno banale e più efficace il senso delle cose, la loro
logica interna e la loro pregnanza assoluta. A tale incapacità egli
rispose brillantemente, una volta per tutte, con il saggio poco noto
Tutto in questione del 1965, in cui polemizzava vivacemente con Pier
Paolo Pasolini, responsabile, a parer suo, di aver proposto posizioni
falsamente realistiche "frettolosamente dedotte per vie e scorciatoie
esterne da ideologie dogmatiche". E vi contrappose un realismo inedito
"che prese corpo nell'Onore del vero che allora stava appunto scrivendo
e che avrebbe dovuto rispondere al bisogno autentico di una più forte,
robusta e rinnovata inerenza alla realtà. Questa risposta era data "in
un tempo contraddistinto da filosofie non affermative, ma se mai
inquiete e frustranti, e anche da certe irreversibili esplorazioni
della psiche che hanno travolto il limite in cui era per i realisti
circoscritto il concetto di realtà (per non parlare della condizione
reale dell'uomo nei suoi complessi, difficoltosi rapporti con quello
che viene definito il mondo della storia) [...] Il tema del realismo
era
stato male introdotto, teorizzato in fretta; ma il suo significato era
e rimane sostanziale per la vita dell'arte; è anzi il suo stesso
elemento" (Mario Luzi, Tutto in questione, Vallecchi Editore, Firenze
1965, pp.10-11).
La storia della filosofia si incaricherà successivamente di dimostrare
la falsità del realismo positivista e immanentista, e la sua
inaccettabile parzialità o cecità incentrata sulle proposizioni
formulate dallo scientismo ottocentesco, con tutto il carico della sua
bassa gnoseologia dell'antimetafisica di marca materialistica,
deterministica e dogmatica, come quelle che concepivano ingenuamente
l'arte un semplice rispecchiamento della realtà, ma che non
affrontavano la questione fondamentale di cosa è in ultima analisi la
realtà che l'arte avrebbe dovuto rappresentare. Perciò,
concludeva Luzi in Tutto in questione, "la proposta o, per meglio dire,
l'ipotesi del realismo non ha resistito". E non poteva resistere
nemmeno grazie ai suoi epigoni novecenteschi, perché quel realismo
mancava di profondità ed era assai limitato nei suoi strumenti
analitici e conoscitivi che non andavano al di là di sensazioni,
percezioni e strumentazioni varie destituite di vera capacità
gnoseologica in quanto impotenti a rappresentare l'Essere totale in una
direzione dialettica, dinamica e non banalmente realistica. E non
falsamente e ottimisticamente progressiva! La dialettica dell'uno e dei
molti, la rappresentazione dell'intero e dell'interno delle cose, e non
solo della loro esterna parzialità, costituiscono la qualità preminente
di un realismo ontologico capace di dare conto della superficie e
dell'interno, della materia e dello spirito, del come e del perché,
nella sintesi possibile e necessaria di essere e divenire. Questo
intreccio dialettico si deve chiaramente esplicitare nella poetica come
luogo di vera poeticità e di concreta possibilità di prassi poetica,
poiché non vi può essere arte senza consapevolezza teoretica. Le
ragioni autentiche dell'arte moderna d'avanguardia stanno perciò dalla
parte di Luzi e non appartengono ai sostenitori del primato
dell'ispirazione o della rappresentazione parziale del reale. L'arte è
dunque una seria interpretazione globale del reale.
prof. Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com