Giampaolo
Pansa ha davvero indovinato sia il titolo che il bersaglio del suo
libro più eloquente edito da Sperling e Kupfer nel 2007, giacché
i "Gendarmi della
Memoria" (questo è il titolo del libro) sono personaggi reali
che abbiamo visto (e vediamo) all'opera, indefessi e accesi difensori
dell'ordine costituito del discorso resistenziale. Dalle loro sedi
universitarie e dagli istituti storici della Resistenza o più
semplicemente dai centri direzionali e promozionali dell'Anpi, costoro
hanno ostacolato la libera ricerca, gravemente condizionato gli
studi e provocato una pericolosa e mortificante mitizzazione
degli avvenimenti storici e di taluni soggetti provocatoriamente
esposti alla celebrazione. Se qualche autore di rilievo ha potuto
eludere in parte la loro sorveglianza, ciò è avvenuto semplicemente
perché non è stato ben compreso il contenuto del lavoro, com'è accaduto
a Claudio Pavone con il suo saggio "Una guerra civile" e ad altri
studiosi e ricercatori di storia contemporanea che hanno spinto
il loro sguardo fino ad intravedere un sostrato finora rimasto
invisibile. E sono venute fuori le belle pagine sui resistenti
meridionali al nazifascismo o quelle meno belle sui traditori della
Resistenza trasformati improvvidamente in eroi.
Giampaolo Pansa ha denunciato con molta passione e decisione un
vizio ideologico che ha attraversato tutto un lungo periodo di studi e
pubblicazioni e che chiama in causa la violenza e la astuzia del potere
nelle sue varie sfumature. Stavolta, con i custodi della memoria, si
risale alle origini del male culturale e lo si indica con chiarezza
nella tendenza "totalitaria" che si annida dietro il rifiuto illiberale
di prestare ascolto alle voci diverse, dissonanti e indipendenti,
perché non si deve disubbidire ai criteri stabiliti e definiti in
modo tassativo e perpetuo. Si comportano così anche i Gendarmi della
Memoria, che si sono accaniti a difendere posizioni indifendibili: "Chi
ha letto fin qui questo libro conoscerà nei dettagli come si è
sviluppato il loro rifiuto della verità. Via via ho cercato di
raccontare la scomposta attività dei Gendarmi della Memoria. E di
descrivere le figure di molti dei politici,degli storici, degli
intellettuali e dei giornalisti che hanno scelto di vestire
quella divisa grottesca. Ma adesso è arrivato il momento di rendere
conto della loro fase sfortunata" ( G. Pansa, "I Gendarmi della
memoria", Sperling e Kupfer 2007, p.454).. Loro, i Gendarmi,
si ergevano ad unici custodi del solo racconto autorizzato e
legittimo del conflitto interno che insanguinò l'Italia fra l'autunno
del 1943 e l'aprile 1945, e non accettavano altre interpretazioni e
ricostruzioni dei fatti. E tutto ciò che contraddiceva il loro racconto
e quello da loro difeso e sostenuto doveva essere smentito o, "meglio
ancora, taciuto, ignorato, cancellato" (ibidem, p.VII). Finalmente un
giornalista importante e coraggioso è riuscito a nominare la cosa
innominabile: il conformismo dei giudizi storici, l'uniformità
ripetitiva che sostanzia la ritualità e affida ad un gruppo monolitico,
quasi unigenito, la pericolosa officina della storia contemporanea e in
particolare della storia della Resistenza in Italia.
Per quanto arretrato e ridicolo possa apparire il carattere irrazionale
della pretesa totalizzante, e con ciò la necessità del mutamento,
nessuno è riuscito finora a smantellare l'immensa fabbrica del
consenso storiografico. Forse Pansa ha voluto creare le basi
dell'alternativa entro la società costituita per liberare le forze
ancora sinceramente disponibili alla nuova (o antica) pratica
storiografica, il cui sviluppo è legato al potenziale liberante
del lavoro rigoroso, nel quale però, secondo me, non vi sarà molto
spazio neppure per le ricerche scandalistiche "alla Pansa". Alla boria
accademica e ideologica e alla santificazione dei fatti e di certi
personaggi non si può certo opporre l'asprezza dogmatica di
ricostruzioni fasulle o memorialistiche e autocelebrative. Perciò
bisogna entrare nel profondo delle vicende e narrare tutta la verità,
anche quella anticipata dalla letteratura innovativa di Fenoglio
o Cassola, e dire persino della partecipazione del Meridione alla
Resistenza, nonostante l'esclusione decretata da storici della statura
di Federico Chabod: "Questo è il cosiddetto regno del Sud. Qui non
troviamo, non possiamo trovare la Resistenza. Si costituiscono, è vero,
dei Comitati di liberazione nazionale, ma essi sono ben diversi da
quelli delle altre regioni; qui i comitati si formano quando ormai non
c'è più nessuna lotta da condurre. Quelli del Nord invece combattono
per due anni, molti dei loro membri rischiano continuamente la vita, e
parecchi infatti la perdono; le popolazioni sanno che fra loro c'è un
gruppo di uomini cui spetta il durissimo compito di guidare la lotta.
In altre parole, ciò significa che sia dal punto di vista politico sia
da quello militare la popolazione del Mezzogiorno non può conoscere il
fenomeno partigiano" (F. Chabod, "L'Italia contemporanea", Einaudi
1961, p.120).
Nella ricerca storica sbaglia chi pretende di ricostruire il passato
con la sola memoria di una parte, e spesso con la sola acredine o con
la sola autoesaltazione. Non fa opera scientificamente seria e corretta
inoltre chi non utilizza tutte le fonti e non le vaglia criticamente,
come hanno sempre insegnato i maestri della storiografia. Non si può
giocare con la verità storica. Questo, però, è il limite insuperabile
di Pansa, che non si preoccupa di raggiungere neppure un livello
dignitoso di analisi e di completezza delle testimonianze perché egli
crede fortemente nei prodigi delle rivelazioni, che accetta ciecamente,
come del resto hanno potuto fare tranquillamente molti storici sul
fronte partigiano. Non basta elencare, allineare e tradurre, senza
esibire chiaramente le fonti,discuterle e poi riorganizzarle nella
narrazione "ragionata".
Non tutti i racconti sono veri e non tutte le testimonianze
corrispondono alla realtà. La critica storica fa tabula rasa sia della
credenza sia della mistificazione sia della stessa partigianeria ed
anzi a questa oppone con Benedetto Croce l'idea di una storia non
clericale, devota esclusivamente alla verità. Anche l'educazione
storica dei giovani, fondamento delle relazioni civili e democratiche,
non può subire, com'è accaduto, l'invasione di pseudo-partigiani o di
mediocri oratori di giornata all'interno delle scuole o di libercoli
edificanti, tirati su con mentalità agiografica, né sopportare menzogne
grandi e piccine costruite ad arte per esaltare o demolire. Pansa ha
ragione da vendere quando dice che "la scuola può corrompere" a causa
della facile "ignoranza faziosa" dei docenti sui fatti storici (vedi
op. cit., p.300), ma anche lui dovrà spiegarci prima o poi cosa
intende esattamente per attività storiografica, molto diversa da quella
del cronista o del memorialista, e come ritiene che si debba
procedere nell'educazione storica delle nuove generazioni.
Non è sufficiente riconoscere che non bisogna santificare la Resistenza
o che si debba esercitare al più alto grado possibile lo spirito
liberale e laico attraverso l'apprendimento-insegnamento della storia.
Uno sforzo di chiarificazione teoretica sui modi pazienti e prudenti
del lavoro storiografico si rende necessario per chi, dopo avere
scritto "I gendarmi della memoria", nutre il sacro desiderio di
formare cittadini italiani e non sudditi di casa fascista o
antifascista. Ma sarebbe bene che un tale sforzo lo facessero tutti
coloro che non intendono abusare della storia e vogliono
finalmente tener conto delle calde raccomandazioni dei grandi maestri
della metodologia storiografica per sfuggire alle insidie di una facile
cronaca. Rifiutare gli avvenimenti non verificati scrupolosamente e le
testimonianze non suffragate da precisi riscontri filologici, e
osservare i fatti con la dovuta distanza critica, ciò porta
inevitabilmente a mettere ai margini tutte le apparenze e le
monumentalità e le ricostruzioni storiche non fondate sui flussi e
riflussi della riflessione ben sostenuta e documentata, e svolta in
maniera decisamente autonoma e libera.
La storia della Resistenza, pertanto, non può essere considerata una
storia dotata di autonomi criteri di validazione e perciò capace di
vivere senza una rigorosa conduzione scientifica e un'integrale
problematicità. Risulta ormai evidente che bisogna disancorare tutti i
pregiudizi ideologici e dare ascolto vero alla richiesta di
scientificità non subordinata alla politica partitica o più
semplicemente all'idea preconfezionata per far penetrare nella
chiusa cittadella resistenziale il cavallo di Troia della vera
intelligenza critica costitutiva e ricostruttiva di storicità.
Dobbiamo dire la verità ai giovani, e cioè che la Resistenza armata
nacque come movimento spontaneo da parte di quei militari "sbandati"
che, non potendo raggiungere le loro case a seguito dell'armistizio con
gli anglo-americani, e non volendo schierarsi con i nazifascisti, si
diedero alla macchia nei luoghi ritenuti più sicuri delll'Appennino
centro-settentrionale, delle Prealpi e delle Alpi, e si organizzarono
in bande armate per condurre la lotta antitedesca e antifascista, dopo
aver ascoltato e interpretato in termini soggettivi la lettura
radiofonica del comunicato badogliano la sera dell'8 settembre 1943:
"Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare
l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento
di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto
un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze
alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente
ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da
parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a
eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza". Quest'ultima
espressione rivelava tutta l'ambiguità o la vera natura del
comunicato e forniva ai tedeschi la legittimazione
dell'occupazione del territorio nazionale, mentre giustificava la loro
inimicizia aggravata dalla fuga a Brindisi del re, del principe
Umberto, di Badoglio, di Acquarone e di tutto il gruppo dirigente e
governativo. Di qui cominciò, dunque, la Resistenza italiana da
parte dei militari "sbandati" e via via riorganizzati in gruppi di
combattimento alla macchia e in tutti i luoghi dello scontro
iniziale da Porta San Paolo nella capitale a Carrara, dall'Appennino
alle Alpi,e da Corfù a Cefalonia. Altri militari obbedirono
invece ai bandi di reclutamento nazisti e della Repubblica
fascista proclamata di lì a poco da Mussolini il 18 settembre 1943, che
faceva assumere al conflitto militare anche il carattere di guerra
civile, con i fascisti più fanatici come Farinacci e Pavolini che
riemergevano dall'ombra e davano maggiore vigore e aggressività alla
lotta antipartigiana. Ma arrivò pure l'annuncio badogliano più chiaro
del 13 ottobre con la dichiarazione di guerra dell'Italia alla
Germania, quando ormai i tedeschi erano i padroni assoluti dei
territori velocemente occupati.
I primi ad ingaggiare una vera battaglia contro i tedeschi furono i
Granatieri di Sardegna sotto il comando del generale Gioacchino
Solinas, il 9 settembre a Porta San Paolo a Roma, quindi gli
Alpini del Battaglione "Val di Fassa" di stanza a Carrara,guidati dal
tenente Adolfo Serafino di Rivarolo Canavese, e successivamente, il 17,
18 e 19 settembre, insorgevano i reparti di stanza a Boves raccolti
dall'ufficiale Ignazio Vian di Venezia, che resistettero eroicamente di
fronte alle divisioni tedesche comandate dal maggiore delle Waffen SS.
Joachim Peiper. Tra i resistenti, ho potuto individuare molti soldati
meridionali che si sono distinti per atti di coraggio e per profonda
consapevolezza dei valori resistenziali: Pompeo Colajanni di
Caltanissetta, Dante Castellucci di Sant'Agata di Esaro in provincia di
Cosenza, Antonino Siligato di Limina in provincia di Messina, Alfio
Anastasi di Acireale, Franco Martellli di Catania, ecc.
Con questa impostazione, rispettosa della verità storica, ho proposto e
riproposto la partecipazione del Meridione e dei Meridionali alla
Resistenza, in aperto, profondo e doloroso contrasto con tutta
quella storiografia che per motivi ideologici legati al "Vento del
Nord" ha negato la partecipazione del Sud, facendo seguito
all'affermazione di Federico Chabod secondo cui, come si è visto, "la
popolazione del Mezzogiorno non può conoscere il fenomeno partigiano".
Il grandissimo storico valdostano non sapeva che il Sud ebbe la sua
Resistenza e che gli uomini del Sud parteciparono massicciamente alla
Resistenza nel centro e nord d'Italia ed a quella fuori d'Italia, della
quale poco si è detto e scritto. Tutto ciò richiede una idea di
Resistenza "spontanea" che si è articolata in diverse
manifestazioni e che si espressa con azioni civili e con vere
attività militari di guerra, come avvenne soprattutto nell'Appennino
tosco-emiliano e in quello ligure-piemontese, nelle strette di Pertuso,
nelle Prealpi bergamasche, vicentine, trevigiane e carniche e
nelle Alpi bellunesi e giulie.
Ma la Resistenza in sé è un fatto complesso: "La Resistenza cominciò
quindi ad assumere aspetti multiformi, che andavano dalla disobbedienza
agli ordini dei tedeschi e dei fascisti alla stampa e diffusione di
giornali e opuscoli clandestini, alla organizzazione di comizi volanti,
alla raccolta di armi, mezzi e danaro, alle azioni di guerriglia nelle
città e nelle campagne" (Giorgio Candeloro, "Storia dell'Italia
moderna. La seconda guerra mondiale. Il fascismo. La Resistenza",
Feltrinelli 2002, p. 257). Lo storico bolognese di formazione
gramsciana ha colto bene la complessità della situazione
storiografica e non ha escluso, lui che ha insegnato nell'Università di
Catania e conosciuto in profondità il Meridione, la partecipazione dei
Meridionali alla Resistenza civile e militare e il loro contributo di
sangue e di energie civili e intellettuali alla costruzione dell'Italia
democratica.
prof. Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com