Ho sempre
rifiutato la narrazione dello storico valdostano Federico
Chabod di un Sud tagliato fuori dalla lotta di liberazione nazionale e
sottoposto ai peggiori condizionamenti sociali e culturali perché su di
esso non soffiava prepotente da nessuna direzione "il vento
del Nord", quello che rappresentava il progresso economico, la
modernità democratica e costituzionale ed il più autentico
antifascismo, quello che si sarebbe fermato ai confini
meridionali della Toscana. Nel regno del Sud la Resistenza taceva,
secondo lo storico, perché era avvenuta troppo presto l'invasione
anglo-americana della notte del 9-10 luglio 1943 e non vi potevano
germogliare le condizioni ideali e materiali di una opposizione
armata e disarmata contro i nazifascisti: "Questo è il regno del Sud.
Qui non troviamo, non possiamo trovare la Resistenza. Si costituiscono,
è vero, dei Comitati di liberazione nazionale, ma essi sono ben diversi
da quelli delle altre regioni; qui i comitati si formano quando ormai
non c'è più nessuna lotta da condurre. Quelli del Nord invece
combattono per due anni, molti dei loro membri rischiano
continuamente la vita, e parecchi infatti la perdono; le
popolazioni sanno che fra loro c'è un gruppo di uomini cui spetta il
durissimo compito di guidare la lotta. In altre parole, ciò significa
che sia dal punto di vista politico, sia da quello militare la
popolazione del Mezzogiorno non può conoscere il fenomeno partigiano
(le grandi giornate di Napoli sono un'eccezione che non muta la
situazione generale). La lotta fra i partiti si svolge in modo, direi,
pressoché normale, in condizioni relativamente favorevoli...
Ma è lotta di partiti, non guerra di resistenza" ( Federico Chabod, L'Italia contemporanea, Einaudi,
Torino 1961, p.120).
Chabod è grandissimo storico dell'età moderna, ma sulla
Resistenza a lui contemporanea gli sfuggono diversi elementi di
giudizio ed in primo luogo il fatto che il Sud non poteva stare a
guardare per evidenti ed inoppugnabili ragioni. Aveva visto bene,
perciò, il Croce che riteneva la contemporaneità una categoria da
trattare con molta prudenza e possibilmente con una certa distanza
cronologica per evitare l'approccio meramente cronachistico e
parziale. La storia possiede una maggiore credibilità rispetto alla
cronaca per la completezza quantitativa delle informazioni e la
migliore qualità dell'interpretazione e della ricostruzione degli
avvenimenti,che devono essere fortemente e chiaramente documentati
da una intellezione depositata in attestazioni certe
e e verificabili.
Più volte ho rivelato la presenza della lotta di liberazione in
Sicilia, in coincidenza dello sbarco alleato nell'Isola, e delle prime
stragi nazifasciste nei paesi dell'Etna, e altrettante volte mi è
capitato di apprezzare l'indimenticato Giorgio Bocca della Storia dell'Italia partigiana per i
primi timidi accenni di grande significato volti a delineare la
Resistenza nelle città del Sud, da Potenza a Matera e da Napoli a
Cajazzo. L'insurrezione di Napoli non è stata l'unica nel Meridione,
giacché altre ve ne furono in centri minori, come a Matera già il 21
settembre 1943 e in vari paesi dell'Irpinia, della Terra di Lavoro, del
Molise e dell'Abruzzo: "In alcuni casi gli insorti, pur con perdite non
lievi, riuscirono a cacciare i tedeschi prima dell'arrivo degli
alleati; in altri le rivolte fallirono e le repressioni furono
durissime, come avvenne a Lanciano tra il 4 e il 6 ottobre" (Giorgio
Candeloro, Storia dell'Italia moderna.
La Resistenza, Feltrinelli, Milano 2002, p. 231). E più volte ho
parlato di militari meridionali "sbandati" dopo l'8 settembre che, non
potendo ritornare nelle loro case lontane e non volendo aderire alla
Repubblica Sociale di Salò, si diedero alla macchia e costruirono
le prime postazioni resistenziali sui monti a ridosso delle grandi e
piccole città del Centro-Nord, da Genova a Torino, da Milano a Udine,
da Montepulciano a Pontremoli, ecc.
Questo fenomeno di iniziale resistenza spontanea affidata alle armi dei
militari "sbandati", e soprattutto di quelli meridionali, non è stato
adeguatamente analizzato, ma esso merita una particolare attenzione
storiografica, come la meritano Cefalonia, i militari italiani
massacrati,quelli dissidenti internati nei campi di concentramento in
Germania e tutti quei religiosi che hanno accolto con grave rischio
nelle loro parrocchie e nei loro conventi ebrei, antifascisti e
partigiani. L'episodio dei monaci dell'abbazia di Farneta presso Lucca,
deportati e racchiusi dai nazifascisti nel Castello "Malaspina"
di Massa e fucilati il 16 settembre 1944 in luoghi
periferici di questa città e distribuiti come tanti sacchi di
patate lungo il percorso e successivamente raccolti da mani pietose,
collocati nelle Fosse del Frigido segnalate poi da un'altissima e
artistica colonna commemorativa, non può essere trascurato o
minimizzato e sollecita una diversa visione e ricostruzione
storiografica distante e quasi estranea ai vecchi schemi pur decorosi
ed austeri della Storia della
Resistenza italiana di Roberto Battaglia. Così per il Sud e la
sua chiara, decisa e indiscutibile partecipazione alla guerra di
liberazione nazionale.
Le prime azioni di guerra partigiana quasi dovunque, nell'Italia del
Centro-Nord sono state compiute da giovani militari meridionali
"sbandati" dopo l'8 settembre 1943 e nascosti tra i monti ed i boschi
dell'Appennino e delle Alpi. Alfio Anastasi era uno di questi. Egli era
nato ad Acireale in provincia di Catania il 2 febbraio 1914 e
dopo l'8 settembre salì in montagna, sull'Appennino piacentino, in
direzione di Cicogni nel Comune di Pecorara sul Monte Mosso e
divenne un consapevole, attivo ed eroico partigiano del Corpo Volontari
della Libertà. Ed in tale posizione, con i suoi compagni, si oppose al
nazifascismo ed ai reparti armati della famigerata divisione
Turkestan composta da fanatici nazisti e fascisti, tutti in uniforme di
combattimento, ben armati e sostenuti da pesanti mezzi corazzati. Egli
combattè valorosamente fino alla morte che lo colse a Fontanella di
Cicogni nel Comune di Pecorara durante una sua permanenza
abituale presso la famiglia Pozzi, a seguito di una spiata e di
feroce rastrellamento nemico con accerchiamento della cascina in
cui si trovava. Il partigiano acese cadde, ferito mortalmente sotto i
colpi del nemico e in quel luogo spicca la lapide che lo riguarda. La
sua biografia è perciò importante se esplorata nella sua completezza e
nei rapporti con la generalità degli avvenimenti che lo toccano da
vicino, ma che non sono, e non possono essere, di natura privata e
psicologica, poiché rientrano in pieno nella dimensione della
storicità, nella storia autentica dell'opera, dell'azione, delle idee,
della formazione dell'uomo e delle circostanze e necessità
della sua rivolta intellettuale e morale nel momento decisivo della
scelta dopo l'8 settembre.
L'ANPI piacentina ha provveduto giustamente ad onorare il partigiano
acese ed i suoi compagni di lotta ed a collocare inoltre il suo
nome nel Museo Monumentale dei Martiri della Resistenza
Piacentina ed a commemorarne solennemente la figura e l'eroismo in
varie occasioni ed a celebrarne la memoria come non si è fatto forse
nel suo paese natale. E questo dato è indicativo della cura
nordica e dell'incuria meridionale, che si traduce poi nella
interpretazione storiografica di Chabod e nella comune convinzione di
un Sud estraneo alla lotta di liberazione, nonostante la massiccia
presenza di targhe e lapidi commemorative disseminate lungo i percorsi
settentrionali della Resistenza armata e dedicate ai partigiani
meridionali caduti in battaglia o fatti prigionieri dai nazifascisti e
quindi trucidati e fucilati. Il legame che allora si teorizzò tra
popolazione e partigiani in armi fece pendere la bilancia dalla parte
del Nord ed escluse ingiustamente il Sud dalla partecipazione alla
guerra di liberazione. Ma la storia alla lunga fa giustizia e
rimette in equilibrio la realtà delle vicende umane, pure
nell'insufficienza degli elementi evocativi e delle istanze
celebrative. La verità si afferma anche quando gli uomini non sanno
curare adeguatamente il proprio patrimonio morale, culturale e
ideale.
Io posso solo apprezzare coloro che hanno voluto riportare
alla luce la verità delle cose e degli uomini e che si sono
legati organicamente e onestamente a quelle vicende lontane
rendendole vicine, appassionanti e significative, e ancora capaci di
suscitare emozioni e sprigionare revisioni e riconsiderazioni del
processo storico che portò alla liberazione nazionale. I miei
ricordi giovanili mi inducono a risentire ancora mentalmente la voce
suadente e commossa di un cugino di Alfio Anastasi, Antonino
(chiamato "Nino") Anastasi, un dignitoso e rigoroso impiegato nel
Comune di Acireale che mi raccontava in termini piuttosto fantasiosi
l'ultima battaglia e la morte orribile dell'Eroe, di cui non seppi
altro e probabilmente non si seppe altro nel paese natale. Perciò
l'apprezzamento agli Organizzatori Piacentini delle commemorazioni e
delle rivelazioni sul Partigiano acese è davvero grande e sincero,
anche se non è stato possibile a tutt'oggi ricostruirne la
biografia completa, cioè possedere e sistemare la totalità delle
informazioni fin dagli anni giovanili prima e dopo l'arruolamento
militare. Ma esistono adesso le condizioni della buona
ricostruzione biografica, cioè di quella biografia che non è semplice
psicologia e che permetta di esprimere un giudizio preciso sulle
azioni compiute, perché egli è vissuto per l'azione. E si sono
determinate pure le profonde motivazioni della ulteriore ricerca
storiografica sul Sud generoso donatore di sangue alla Resistenza
armata, a quella disarmata ed alla libertà dell'Italia.
prof. Salvatore Ragonesi