Non è la prima volta
che la Cassazione si occupa dell’uso “distorto” che alcuni lavoratori
fanno dei permessi legge 104/92.
Questa volta la questione affrontata dalla Suprema Corte con la
sentenza n. 9217, depositata il 6 maggio scorso, riguarda il tempo
dedicato all’assistenza del disabile grave per il quale il dipendente
ha richiesto il permesso.
In particolare, un lavoratore, pur avendo richiesto alcuni permessi ex
L. n. 104/1992, era stato visto recarsi presso l'abitazione
dell'assistita (cognata non convivente) affetta da grave disabilità per
un numero di ore inferiore a quello previsto. E per tale ragione era
stato licenziato.
Il Tribunale di Lanciano aveva annullato il licenziamento, decisione
poi ribaltata dalla Corte d’Appello, che ha dichiarato legittimo il
recesso.
L’Agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro di seguire gli
spostamenti del lavoratore aveva verificato che lo stesso si era recato
presso l'abitazione dell'assistita un giorno per un totale di 4 ore e
15 minuti, un altro giorno per 3 ore e 25 minuti e un altro giorno mai.
Secondo la Corte d’appello, ricorreva pertanto la figura dell'abuso del
diritto in relazione a permessi che dovevano essere svolti in coerenza
con la loro funzione; per oltre due terzi del tempo previsto, invece,
il lavoratore non aveva svolto alcuna attività assistenziale, ma anzi
si era occupato di attività estranee all'assistenza alla cognata
disabile. Per questa ragione erano stati violati i principi di
correttezza e buona fede, tanto da far venire venir meno del vincolo
fiduciario e giustificare quindi il licenziamento.
In pratica, l'assistenza per la quale il permesso fu richiesto non fu
effettuata per l'orario dovuto in quanto il ricorrente si occupò di
altro, nonostante la richiesta di un permesso per assistenza
presupponga che ci si obblighi effettivamente a fornirla, senza che sia
lecito occuparsi proprio in quelle ore di altre faccende.
Anche la Cassazione concorda con la decisione della Corte d’appello,
evidenziando che "il comportamento del prestatore di lavoro subordinato
che, in relazione al permesso ex art. 33 L. n. 104/1992, si avvalga
dello stesso non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad
altra attività, integra l'ipotesi dell'abuso di diritto, giacché tale
condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva
della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa
in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra nei
confronti dell'Ente di previdenza erogatore dei trattamento economico,
un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento
assistenziale”.
Nel caso in esame era stato accertato che l'assistenza non era stata
fornita per due terzi del tempo dovuto con grave violazione dei doveri
di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che
sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che
dell'Ente assicurativo. Inoltre, le motivazioni che avevano portato il
lavoratore ad allontanarsi dalla casa della cognata non potevano essere
considerate né urgenti né indifferibili, per cui per la Cassazione il
licenziamento è legittimo.
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