Intervista a Ezio Delfino
(DiSAL) sulle allarmanti proiezioni degli esiti degli esami pubblicate
da Tuttoscuola: «Ci vuole il coraggio di riformare le procedure. Ad
esempio con la chiamata diretta dei prof».
«Meglio un somaro in cattedra o un somaro a spasso?», si chiede Gian
Antonio Stella. Il Corriere della Sera pubblica i dati e la proiezioni
degli esiti finali elaborati da Tuttoscuola sul concorsone previsto
dalla legge sulla Buona scuola, bandito a febbraio scorso per assumere
63.712 docenti dalle materne alle superiori, e lancia l'allarme: a
poche settimane dal termine ultimo per le assunzioni per l'anno
scolastico 2016-17 (fissato per il prossimo 15 settembre) solo la metà
degli scritti dei 71.448 candidati sono stati esaminati dalle 825
commissioni e 202 sottocommissioni, e di questi solo 32.036 hanno
portato all'ammissione all'orale. Il 55,2 per cento degli aspiranti
docenti (più bocciati al Nord e meno al Sud) non è stato infatti
ritenuto all'altezza pur avendo già l'abilitazione all'insegnamento, e
quasi un terzo dei posti messi a concorso dal ministero dell'Istruzione
rischiano ora di restare vacanti: «È probabile un buco di circa 23 mila
posti», scrive Stella. «Uno su tre. Troppo selettive le prove o troppo
impreparati i concorrenti?».
«Troppo obsoleto il modello di concorso», ribatte in questa intervista
a tempi.it Ezio Delfino, dirigente scolastico del Liceo scientifico
statale G. Ancina di Fossano in provincia di Cuneo e presidente
nazionale dell'associazione DiSAL (Dirigenti scuole autonome e libere).
«Quello che sta accadendo dimostra che è finito il tempo dei concorsi
nazionali. Tempistiche incerte, lungaggini burocratiche, assenza di
controlli delle procedure, disomogeneità delle commissioni e resistenze
di ogni genere dicono che il modello, previsto dalla Costituzione per
le assunzioni delle amministrazioni statali, è ormai superato e bisogna
tentare altre strade».
Pensa a una destatalizzazione del concorso per assumere i docenti?
Penso, ad esempio, a un modello che preveda percorsi dei diversi
indirizzi universitari propedeutici all'insegnamento ed abilitanti
seguiti da periodi di tirocinio nella scuola ed alla successiva
iscrizione degli aspiranti docenti ad albi professionali divisi per
aree di insegnamento ai quali le scuole possano attingere insegnanti
con caratteristiche e profili adeguati al progetto formativo
dell'istituto. E ad avvisi di chiamata per l'assunzione di insegnanti
da promuovere a livello territoriale, regionale, di reti di scuole o di
singole istituzioni scolastiche. Pur essendo da perfezionare, il
modello della cosiddetta "chiamata diretta" (che vede in queste
settimane i dirigenti scolastici statali impegnati ad individuare
docenti non in base ad anzianità e punteggi, ma in base ad esperienze,
titoli e formazione, ndr) che i presidi stanno gestendo in questi
giorni, dimostra che è possibile individuare i docenti da assegnare
agli studenti attraverso procedure trasparenti e oggettive, con un
raccordo diretto tra profilo professionale ed esigenze
didattico-progettuali individuate dal Piano formativo della scuola.
Al di là dell'impegno profuso e della competenza dalle commissioni che
stanno in questi mesi le prove concorsuali, il modello centralistico e
nazionale delle assunzioni è arrivato al capolinea e bisogna avere il
coraggio di riformare le procedure. Inoltre, per l'appunto, i risultati
dell'attuale concorso ne stanno disattendendo gli obiettivi: le classi
di concorso più penalizzate dalle prove scritte sono proprio quelle di
cui ci sarebbe più necessita nell'immediato, come ad esempio le classi
di concorso di scienze e matematica.
È polemica anche sui quesiti prescelti, la severità delle commissioni e
la "somarite" della classe docente. E ovviamente sui prof del Sud che
urlano alla "deportazione".
La selezione ai concorsi c'è sempre stata, come è nella natura di tutti
gli esami: fatta salva qualche situazione di commissioni
particolarmente esigenti e di qualche candidato oggettivamente
impreparato al ruolo, prima di gridare allo scandalo bisognerebbe fare
un'indagine sui concorsi precedenti e confrontare i dati storici. Gli
strafalcioni riportati dal Corriere li ho letti, sono clamorosi, ma
anche fisiologici ai concorsi, non crocifiggerei la categoria docente
per la presenza di alcuni candidati che nelle prove scritte rivelano
impreparazione, imperizia o preparazione generica e superficiale.
Rispetto alla polemica dei docenti costretti al trasferimento per
accedere al ruolo nella scuola di Stato, fatti salvi errori tecnici e
dell'algoritmo da parte del ministero, chi ha chiesto di accedere alle
chiamate dirette sapeva che la maggioranza delle cattedre disponibili
erano al Nord e che avrebbe potuto dover trasferirsi. Così come è anche
vero che i docenti che sono stati molti anni precari pagano sulla loro
pelle un'assenza di serie e periodiche programmazioni di piani di
assunzione da parte dell'amministrazione scolastica che li ha costretti
di fatto a restare nel sistema scuola sperando di anno in anno nella
definitiva assunzione. Proprio per evitare questo, programmazioni
territoriali e nuovi modelli di assunzione a livello regionale o
territoriale, con disposizioni naturalmente omogenee a livello
nazionale, porterebbero a risultati più efficienti ed efficaci,
consentendo corrispondenze con i profili di cui c'è più bisogno. Tutto
il contrario di questo concorso, che lascerà migliaia di posti non
occupati perpetuando il fenomeno delle supplenze, degli incarichi
annuali, del precariato. Andando a proporre per il prossimo anno
scolastico le cattedre in via temporanea proprio con chi magari è non
ha superato le prove di questo concorso ed è rimasto inserito nella
graduatorie di insegnamento precedenti ed ancora valide.
Basta decentrare il concorso per scongiurare contraddizioni così
clamorose?
Credo sia venuto il tempo di guardare a un modello di assunzione
differente dal concorso, con lauree propedeutiche all'insegnamento
integrate e seguite da percorsi di vero tirocinio gestiti non solo
dalle università, ma anche dalle scuole, che portino a una selezione
"sul campo", "facendo scuola", come accade già in molti paesi non solo
europei ma anche negli Stati Uniti o in Canada.
All'estero si osserva infatti una tendenza importante a concedere ampia
autonomia alle istituzioni scolastiche nella gestione delle risorse,
specialmente quelle umane, e dell'offerta formativa. Il modello delle
Charter School, scuole autonome e in concorrenza tra loro finanziate
dallo Stato sulla base di una valutazione centralizzata dei loro
risultati, è una chimera in Italia?
Non c'è bisogno necessariamente di importare modelli esteri: restando
nei confini nazionali sono già in atto esperienze interessanti e
fortemente innovative di buone pratiche sia nelle scuole statali che in
quelle paritarie ed è in quella direzione che dobbiamo guardare. Gli
esempi non mancano: dal Nord al Sud molte scuole che hanno saputo usare
in modo intelligente l'autonomia si sono impegnate in modelli,
progettazioni, collaborazioni e scambi di buone pratiche creando anche
reti capaci di rimettere al centro la formazione dei docenti, la
domanda degli alunni e la individuazione di progetti didattici
innovativi. Disal sta lavorando anche in questa direzione: abbiamo
avviato laboratori e reti territoriali che hanno consentito alle scuole
di attingere ai modelli e a proposte che investono sul capitale umano e
professionale degli insegnanti. Credo quindi che anche senza importare
modelli stranieri, che pure hanno la loro originalità e importanza, il
compito dello Stato oggi sia quello di valorizzare, sostenere e
finanziare, nello spirito di una Buona scuola, lo scambio di buone
pratiche ed esperienze di formazione "in azione" presenti nel nostro
sistema pubblico di scuole: più verrà data autonomia e libertà alle
scuole, ed in esse ai diversi soggetti, più il sistema scolastico potrà
svilupparsi e avere beneficio.
Tuttoscuola denuncia anche la mancanza di motivazione dei concorrenti:
«Finché l'insegnamento non tornerà ad essere una prima scelta mancherà
il presupposto principale per tenere alto il livello qualitativo della
scuola italiana». È così? L'insegnamento è diventata una seconda o
terza scelta?
La demotivazione o la scelta per ripiego esiste nel mondo della scuola
così come in qualsiasi ambito professionale. È vero che in questo
ambito la "vocazione" all'insegnamento è centrale: la responsabilità
del docente è quella di avere uno sguardo sui ragazzi comunicandolo
attraverso quel pezzo di realtà che è la propria disciplina insegnata.
Non bastano competenze didattiche e disciplinari, seppur necessarie, ma
è decisiva la capacità di interpretare la domanda educativa e di
conoscenza vera dello studente, guardando alla quale il docente sia
rimesso continuamente in gioco e, quindi, attore della propria ricerca
di formazione.
Questa è una posizione culturale ed umana che si potenzia nel
quotidiano rapporto in classe con gli alunni e non è scontato che sia
presente in tutti gli insegnanti: ci sono docenti preparatissimi per i
quali questa capacità di "incontro" è la parte riconosciuta come la più
difficile del proprio lavoro. Certo, non è attraverso un concorso
statale che questa vocazione all'incontro viene scoperta: essa deve poi
venir sollecitata, formata e potenziata nel lavoro didattico e
collegiale all'interno di ciascuna scuola. Ed è responsabilità di chi
dirige un istituto sollecitare e costruire questi protagonismi, queste
azioni didattiche, queste collaborazioni tra docenti e questi scambi di
esperienze tra scuole attraverso i quali valorizzare i diversi profili
dei docenti, chi dal punto di vista delle competenze disciplinari e chi
dal punto di vista delle capacità di sviluppare autonomie e competenze
negli studenti.
Soprattutto in un ambito come la scuola dove non esistono, al momento,
seconde scelte per chi si accorge di non aver proprio quella vocazione:
una volta ottenuto un posto fisso è difficile che una persona che non
si scopre chiamata per il mestiere che ha intrapreso faccia un passo
indietro. Valorizzare quindi ciascuno diventa un compito della scuola,
una scuola che, per questo, deve veder sempre più riconosciute e
sostenute quelle caratteristiche di autonomia e libera determinazione
che le norme già le riconoscono. Solo così crescono i ragazzi, crescono
i docenti, cresce la scuola stessa.
Caterina Giojelli