Maestri sono
coloro che rimangono nella memoria dei posteri e che
costituiscono punti importanti di riferimento per i tempi futuri. La
crisi conoscitiva e culturale, però, ne ha ridimensionato la funzione e
il valore, poiché essa si è presentata con il vigore distruttivo dei
nostri Padri Spirituali, sulle cui pagine a nessuno piace studiare. E
ciascuno oggi preferisce con arroganza andare a ruota libera nei
concetti e nel linguaggio per dimostrare autonomia e autorevolezza,
senza tener conto del fatto che ogni progresso negli studi e nella
ricerca disciplinare presuppone il possesso di conoscenze elaborate e
acquisite precedentemente con grande fatica. Esistono quindi i veri
Maestri e sono gli Spiriti Magni, i più creativi e costruttivi, coloro
che hanno compiuto le autentiche rivoluzioni metodologiche, stilistiche
e contenutistiche. Essi sono pochissimi nell’Italia del Novecento e
bisogna rispettarli per il bene che si deve a noi stessi e alla
comunità alla quale apparteniamo. Nel loro numero molto limitato
rientra certamente Benedetto Croce (1866-1952), nonostante il giudizio
malefico di Ludovico Geymonat.
Il Filosofo, nato a Pescasseroli (del quale ricorrono quest’anno
i sessantacinque anni dalla morte avvenuta a Napoli il 20 novembre
1952), diventa definitivamente “napoletano” dopo aver
ricevuto l’ospitalità romana presso lo zio Silvio Spaventa, a
seguito della perdita dei genitori e della sorella nel terremoto di
Casamicciola del 1883 e la decisione di trasferirsi nella casa che fu
l’abitazione di Giambattista Vico, il suo più diretto e acuto
predecessore nella visione storiografica. La bella metropoli adagiata
sul Tirreno con lui ascende a capitale della cultura nazionale ed
internazionale. Egli assume il ruolo di promotore di critica storica e
letteraria e di caposcuola dello storicismo italiano, diverso da quello
di Hegel e dei suoi epigoni tedeschi. Lo storicismo crociano non è né
giustificazionista né nazionalista, ma laico, libertario e aperto alla
comprensione totale della realtà passata con tutta l’energia razionale
e la tensione etica dell’attualità.
La sete di profonda e ampia comprensione mette in moto la categoria
storiografica che ingloba sensibilità e interesse verso la
contemporaneità, quel mondo dell’attualità nel quale ci tocca vivere,
lavorare e agire, e che trasforma anche il passato più remoto in storia
contemporanea, perché esso investe direttamente e dall’interno la
nostra sfera intellettuale e tutta la nostra esistenza più
intima. Questa è, a parer mio, la connotazione principale dello
storicismo crociano, che è pensiero e azione, metodo e contenuto, forma
e materia. E con la scoperta della contemporaneità storica, assai
semplice in verità ma fondamentale, il Filosofo napoletano può
procedere sulla via della ricostruzione etico-politica degli eventi
storici e strutturare una storiografia davvero esemplare senza cedere
al filologismo fine a se stesso e alle posizioni ed emozioni partigiane
e soggettivistiche, agli interessi di parte che non costituiscono
giudizio storico, giacché sono privi di verità, di imparzialità e di
vera capacità cognitiva. E ciò si deve verificare pure in
considerazione del fatto evidentissimo che la storia viene costruita e
ri-costruita continuamente in funzione della vita pratica attuale e
dell’agire etico-politico: “Cosicché è da dire, conchiudendo, che
la conoscenza storica sorge dall’azione, ossia dal bisogno di schiarire
e nuovamente determinare gli ideali dell’azione oscurati e confusi, e
che, col pensare l’accaduto, rende possibile la loro nuova
determinazione e prepara la nuova azione” (Benedetto Croce, “La storia
come pensiero e come azione”, Laterza, Bari 1966, p.162). Tutta la
storia è dunque storia “contemporanea” ed essa deve contenere e
appagare il bisogno di conoscenza e imparziale.
Benedetto Croce, con un incessante e severo lavoro di scavo teoretico,
definisce le coordinate della “buona” storiografia e contestualmente
realizza le sue grandi opere storiografiche nella famosa
trilogia: la “Storia del Regno di Napoli” del 1925, la “Storia
d’Italia dal 1871 al 1915”, che è del 19 28 e la “Storia d’Europa nel
secolo decimonono”, che è del 1932. Queste opere, scritte e
pubblicate in un brevissimo arco di tempo, sono dei capolavori di
scrittura, di pensiero e di metodo. E non si può dire che esse non
siano state generate nel momento cruciale sia della storia d’Italia sia
della storia europea. In esse aleggia una forte lezione di
liberalismo aperto e intelligente che vuole muovere all’azione prudente
e che gli antifascisti intendono pienamente e mettono in atto in
stretta aderenza al duro “Manifesto degli intellettuali antifascisti”
elaborato e messo in circolazione dallo stesso Croce nel 1925.
Dunque, la contemporaneità della storia, ovvero quel passato che
non passa mai perché è sempre un presente di fronte alla coscienza
dello storico, costituisce il cardine dello storicismo crociano e della
stessa scientificità storiografica come la intende il nostro Filosofo,
che non perde di vista l’obiettivo della verità acquisita anche e
soprattutto in modo puntuale e filologicamente esatto e quello della
formazione liberale per un progetto etico-politico di giustizia e di
emancipazione umana da realizzare sul terreno storico. Per questa
ragione lo storico non può essere uomo di parte, privo di larga umanità
e vuoto di cultura. Egli non può essere né guelfo né ghibellino, ma
libero cittadino del mondo storico, ovvero libero intellettuale in una
libera comunità. E così la storia d’Europa non è una semplice vicenda
di guerre e di conquiste, ma storia di libertà e di liberazione; come
la storia d’Italia che ha inizio con l’unificazione dei suoi popoli
pre-unitari e non prima che venisse a compimento l’unità nazionale come
presupposto dell’emancipazione culturale e civile che la nuova
cittadinanza porta con sé e diffonde tra i cittadini del nuovo Stato,
introducendovi una legislazione più progressiva delle precedenti
pre-statali indipendenti autonome: “E’ questo lo schizzo di una storia
dell’Italia dopo la conquistata unità di stato, ossia non una cronaca
come se ne hanno già parecchie in materia, e non una narrazione in un
senso o in un altro tendenziosa, ma appunto il tentativo di esporre gli
avvenimenti nel loro nesso oggettivo e riportandoli alle loro fonti
interiori” (B.Croce, “Avvertenza” alla “Storia d’Italia dal 1871 al
1915”, Laterza, Bari 1966, p.VII).
Benedetto Croce, lo storico della “serena” ricomposizione e
conciliazione, degli opposti, colui che avrebbe visto la nazione unita
e pacificata, in felice ascesa, sociale e spirituale, per onorare la
verità dei fatti e dei giudizi, è costretto invece a raccontare i
turbamenti, la scomposizione e le drammatiche fratture aperte dagli
interventisti nel corso della prima guerra mondiale. Si tratta di
ferite gravissime che determinano conseguenze pesanti e tragiche nella
storia successiva del nostro Paese. L’interventismo, dice il Croce
nelle ultime pagine della sua “Storia d’Italia”, è infatti una prima
tappa di un processo inarrestabile verso il baratro del fascismo con la
messa in crisi dei rapporti di cittadinanza e di civiltà:
“I nazionalisti volevano la guerra per giungere attraverso la guerra al
successo e alla gloria militare, all’espansione industriale, al
soverchiamento del liberalismo e al regime autoritario, per sostituire
all’Italia del Risorgimento un’altra Italia, rigenerata nella moderna
plutocrazia, non impacciata da ideologie e da scrupoli” ( Benedetto
Croce, “Storia d’Italia”, cit., p. 264). Così il rigore metodologico e
la tensione etica costringono lo Storico napoletano a seguire e
raccontare la vera storia degli eventi terribili con la massima acribia
e con le tinte realistiche del pessimismo storiografico.
prof. Salvatore Ragonesi