Giada e
Hassan sono nati in Italia da genitori stranieri, qui hanno
frequentato la scuola dell’infanzia e ora sono alla primaria. I due
bambini non sanno di essere, per la legge attuale sulla cittadinanza
del 1992, giuridicamente stranieri e
che tali dovranno rimanere fino alla maggiore età. Come molti
ragazzi stranieri, anch’essi probabilmente lo scopriranno con disagio a
15 anni, quando dovranno fare il loro primo permesso di soggiorno
autonomo. Per i loro compagni, Giada
e Hassan sono italiani come tutti loro, dal momento che parlano,
giocano, imparano… in italiano.
Le nostre classi sono diventate, e diventeranno sempre di più, multiculturali, non tanto a seguito dell’arrivo di bambini dai Paesi di origine ma soprattutto per l’ingresso a scuola di bambini che sono nati in Italia. Essi costituiscono già quasi il 60% degli alunni inseriti nella scuola primaria e raggiungono percentuali più alte (pari all’80%) nelle prime due classi. Il baby boom delle famiglie straniere si è consolidato soprattutto a partire dal 2004: è da quell’anno infatti che il numero dei piccoli non italiani diventa rilevante (pari all’8,3% delle nascite, fino a salire al 18,4% nel 2011). Sempre più nelle classi abbiamo e avremo a che fare con bambini italofoni, nati e cresciuti qui e che hanno un percorso scolastico simile a quello dei compagni italiani. Essi possono trovare sul loro cammino ostacoli dovuti a condizioni socio-economiche familiari svantaggiate, ma non più causati dallo sradicamento e dallo spostamento da un Paese all’altro e dalla necessità di un apprendimento immediato della seconda lingua.
Parole e rappresentazioni inadeguate
Queste trasformazioni della popolazione scolastica straniera implicano almeno tre cambiamenti anche nella rappresentazione della scuola e degli insegnanti. In primo luogo, sarà sempre più “normale” essere un bambino che ha origini familiari collocate altrove, o tratti somatici diversi, ma che fa parte a pieno titolo dei bambini di Milano, Torino, Vicenza… Il linguaggio che usiamo per definire oggi chi è giuridicamente straniero dovrà guardare sempre più al futuro e sempre meno al passato. È ormai del tutto inadeguato continuare a definirli, per esempio, “alunni immigrati”, perché tali non sono, oppure “extracomunitari”.
In secondo luogo, l’avanzare della “seconda generazione” dovrebbe avere come conseguenza la riduzione del preoccupante ritardo scolastico e degli esiti negativi che connotano i cammini degli alunni stranieri. Finora è stato purtroppo quasi “normale” inserire un alunno non italofono arrivato dal Paese d’origine in una classe inferiore di uno o due anni rispetto alla sua età. Attualmente gli alunni non italiani in situazione di ritardo rappresentano più del 17,4% nella scuola primaria, quasi la metà dei frequentati nella secondaria di primo grado e più del 70% nelle superiori. Dovremo anche rivedere le nostre rappresentazioni degli alunni stranieri nei momenti cruciali delle decisioni e delle scelte (orientamento e formazione delle classi).
In terzo luogo, diventerà sempre più evidente la discrepanza tra l’importanza che noi diamo all’educazione alla cittadinanza e le difficoltà del nostro Paese a rispondere in maniera positiva alle domande di cittadinanza reale e concreta che provengono dai nuovi cittadini. Oggi chi nasce in Italia può diventare cittadino facendone richiesta al compimento dei diciotto anni, ma deve dimostrare di essere stato residente in Italia, per tutto il periodo, senza interruzioni. I bambini stranieri vivono quindi un tempo segnato dall’appartenenza/non appartenenza. E questa situazione non è positiva né per i futuri cittadini, né per le nostre comunità.
SESAMO, didattica interculturale
Le nostre classi sono diventate, e diventeranno sempre di più, multiculturali, non tanto a seguito dell’arrivo di bambini dai Paesi di origine ma soprattutto per l’ingresso a scuola di bambini che sono nati in Italia. Essi costituiscono già quasi il 60% degli alunni inseriti nella scuola primaria e raggiungono percentuali più alte (pari all’80%) nelle prime due classi. Il baby boom delle famiglie straniere si è consolidato soprattutto a partire dal 2004: è da quell’anno infatti che il numero dei piccoli non italiani diventa rilevante (pari all’8,3% delle nascite, fino a salire al 18,4% nel 2011). Sempre più nelle classi abbiamo e avremo a che fare con bambini italofoni, nati e cresciuti qui e che hanno un percorso scolastico simile a quello dei compagni italiani. Essi possono trovare sul loro cammino ostacoli dovuti a condizioni socio-economiche familiari svantaggiate, ma non più causati dallo sradicamento e dallo spostamento da un Paese all’altro e dalla necessità di un apprendimento immediato della seconda lingua.
Parole e rappresentazioni inadeguate
Queste trasformazioni della popolazione scolastica straniera implicano almeno tre cambiamenti anche nella rappresentazione della scuola e degli insegnanti. In primo luogo, sarà sempre più “normale” essere un bambino che ha origini familiari collocate altrove, o tratti somatici diversi, ma che fa parte a pieno titolo dei bambini di Milano, Torino, Vicenza… Il linguaggio che usiamo per definire oggi chi è giuridicamente straniero dovrà guardare sempre più al futuro e sempre meno al passato. È ormai del tutto inadeguato continuare a definirli, per esempio, “alunni immigrati”, perché tali non sono, oppure “extracomunitari”.
In secondo luogo, l’avanzare della “seconda generazione” dovrebbe avere come conseguenza la riduzione del preoccupante ritardo scolastico e degli esiti negativi che connotano i cammini degli alunni stranieri. Finora è stato purtroppo quasi “normale” inserire un alunno non italofono arrivato dal Paese d’origine in una classe inferiore di uno o due anni rispetto alla sua età. Attualmente gli alunni non italiani in situazione di ritardo rappresentano più del 17,4% nella scuola primaria, quasi la metà dei frequentati nella secondaria di primo grado e più del 70% nelle superiori. Dovremo anche rivedere le nostre rappresentazioni degli alunni stranieri nei momenti cruciali delle decisioni e delle scelte (orientamento e formazione delle classi).
In terzo luogo, diventerà sempre più evidente la discrepanza tra l’importanza che noi diamo all’educazione alla cittadinanza e le difficoltà del nostro Paese a rispondere in maniera positiva alle domande di cittadinanza reale e concreta che provengono dai nuovi cittadini. Oggi chi nasce in Italia può diventare cittadino facendone richiesta al compimento dei diciotto anni, ma deve dimostrare di essere stato residente in Italia, per tutto il periodo, senza interruzioni. I bambini stranieri vivono quindi un tempo segnato dall’appartenenza/non appartenenza. E questa situazione non è positiva né per i futuri cittadini, né per le nostre comunità.
SESAMO, didattica interculturale