Caro
Direttore, Monique è una ragazza di quindici anni che viene dal
Centro-Africa. Alta, il viso ovale, con quel tratto di melanconia che a
volte hanno i ragazzi che vanno male a scuola, al suo arrivo in Italia
venne subito messa in una quinta elementare, quando ancora non
conosceva la nostra lingua e quindi non capiva nulla di quello che si
diceva della sua classe. Figuriamoci poi come socializzava! Nel suo
paese d’origine, in una scuola di lingua francese, aveva un buon
profitto scolastico, ma dopo l’ingresso nella scuola italiana tutto è
stato difficile: le medie le ha fatte stentatamente e alla prima
superiore è stata bocciata. Ora ha cambiato indirizzo, è di nuovo in
un’altra prima superiore. Le do qualcosa da leggere e la lettura
formale è piena di intoppi e di errori: in queste condizioni leggere è
una fatica improba e tuttavia riesce ugualmente a capire il significato
del breve brano che le ho proposto, probabilmente perché ha una buona
intelligenza. Anche nel parlare non è completamente padrona
dell’italiano che nessuno le ha insegnato seriamente. Mi è stata
portata in visita perché disattenta, ma di un problema specifico non
c’è traccia: è comprensibile che non conoscendo bene la nostra lingua
la sua attenzione a scuola sia poco costante.
Mi sembra chiaro che per Monique la nostra scuola ha organizzato un
percorso che le prepara un futuro uguale al presente dei suoi genitori,
poveri immigrati: si prepari a fare la badante o a pulire i pavimenti
delle case dei bianchi italiani. E così per tutti gli altri figli di
immigrati stranieri: restino nel posto destinato ai loro genitori, e
sul piano lavorativo rimangano cittadini di serie B.
Come Monique c’è un milione di ragazze e ragazzi figli di immigrati
nelle nostre scuole; e alcuni vengono da Paesi come la Cina, l’Ucraina,
la Russia, dove la lingua è diversissima dalla nostra. vengono accolti
nella stessa maniera di Monique: messi subito in classi con gli altri,
al massimo poche ore di insegnamento d’Italiano. Per il resto del tempo
possono navigare, specialmente all’inizio, nella più completa oscurità
linguistica e senza conoscere una parola di italiano dovrebbero seguire
le spiegazioni di matematica, storia, scienze e delle altre materie.
Ecco perché condivido in pieno l’iniziativa della scuola di Bologna,
che ha istituto una classe apposita per far apprendere l’italiano a un
gruppo di ragazzi stranieri, per poi inserirli al momento opportuno in
una classe normale. Invece, un direttiva della passata gestione del
Ministero della Pubblica Istruzione per i figli degli immigrati propone
che “le due ore di insegnamento della seconda lingua nella scuola
secondaria di primo grado possano essere utilizzate anche per
potenziare l’uso della lingua italiana”, come se conoscere poco o
affatto la lingua parlata in classe fosse poca cosa che si può
risolvere con un paio d’ore in più la settimana.
Ma cosa succede negli altri paesi dell’Europa? In Finlandia, per fare
un solo esempio, l’accoglienza scolastica è del tutto diversa: i
ragazzi immigrati vengono inizialmente messi a studiare soltanto il
finlandese e ogni due mesi, in relazione alle migliori capacità nel
padroneggiare la nuova lingua, sono gradualmente integrati con gli
altri: nella musica, nel disegno, nella ginnastica, e poi nell’ultima
parte dell’anno in tutto, ormai uguali agli altri.
È un paradosso: ma la curiosa “integrazione” che la nostra scuola
propone ai figli degli immigrati in realtà li emargina in classe a
causa delle gravi difficoltà a comunicare con i propri compagni e
prepara con loro un destino di emarginazione sociale e lavorativa.
Precisamente come quarant’anni fa facevano le scuole differenziali e
speciali, che prendevano i figli dei nostri emigrati del sud. Erano
bambini normali, il cui limite era soltanto il dialetto e nella
deprivazione culturale familiare, ma venivano messi in classi in cui
poteva succedere che la prima si dovesse fare due volte, nello stesso
modo la seconda, e così via: catalogati insieme ai disabili, ricevevano
un tipo di educazione impoverita, che li condannava nel futuro ad un
percorso lavorativo di quart’ordine. Un risultato analogo viene
prospettato nell’oggi per i figli degli immigrati stranieri, anch’essi
bambini normali il cui limite è solo nel non conoscere la lingua del
Paese che li accoglie.
A ben guardare, l’atteggiamento della scuola verso i disabili e quello
verso gli immigrati hanno un tratto in comune, quello di prevedere una
soluzione valida per tutti, sempre per la paura “che si sentano
esclusi”. E la soluzione è “tutti in classe”, senza tener conto delle
diverse esigenze, per esempio dell’insofferenza al rumore di molti
bambini autistici, o, appunto, della necessità di imparare la lingua
italiana per seguire le lezioni.
C’è, quindi, l’esigenza di organizzarsi in modo che nella scuola
l’obiettivo prioritario sia quello di dare a ogni bambino e ragazzo un
percorso educativo adeguato ai suoi bisogni, presenti e futuri: negare
questo diritto è la forma peggiore di esclusione.
Michele
Zappella, Neuropsichiatra dell’età evolutiva (Corriere della
Sera)