
Mi sembra chiaro che per Monique la nostra scuola ha organizzato un percorso che le prepara un futuro uguale al presente dei suoi genitori, poveri immigrati: si prepari a fare la badante o a pulire i pavimenti delle case dei bianchi italiani. E così per tutti gli altri figli di immigrati stranieri: restino nel posto destinato ai loro genitori, e sul piano lavorativo rimangano cittadini di serie B.
Come Monique c’è un milione di ragazze e ragazzi figli di immigrati nelle nostre scuole; e alcuni vengono da Paesi come la Cina, l’Ucraina, la Russia, dove la lingua è diversissima dalla nostra. vengono accolti nella stessa maniera di Monique: messi subito in classi con gli altri, al massimo poche ore di insegnamento d’Italiano. Per il resto del tempo possono navigare, specialmente all’inizio, nella più completa oscurità linguistica e senza conoscere una parola di italiano dovrebbero seguire le spiegazioni di matematica, storia, scienze e delle altre materie. Ecco perché condivido in pieno l’iniziativa della scuola di Bologna, che ha istituto una classe apposita per far apprendere l’italiano a un gruppo di ragazzi stranieri, per poi inserirli al momento opportuno in una classe normale. Invece, un direttiva della passata gestione del Ministero della Pubblica Istruzione per i figli degli immigrati propone che “le due ore di insegnamento della seconda lingua nella scuola secondaria di primo grado possano essere utilizzate anche per potenziare l’uso della lingua italiana”, come se conoscere poco o affatto la lingua parlata in classe fosse poca cosa che si può risolvere con un paio d’ore in più la settimana.
Ma cosa succede negli altri paesi dell’Europa? In Finlandia, per fare un solo esempio, l’accoglienza scolastica è del tutto diversa: i ragazzi immigrati vengono inizialmente messi a studiare soltanto il finlandese e ogni due mesi, in relazione alle migliori capacità nel padroneggiare la nuova lingua, sono gradualmente integrati con gli altri: nella musica, nel disegno, nella ginnastica, e poi nell’ultima parte dell’anno in tutto, ormai uguali agli altri.
È un paradosso: ma la curiosa “integrazione” che la nostra scuola propone ai figli degli immigrati in realtà li emargina in classe a causa delle gravi difficoltà a comunicare con i propri compagni e prepara con loro un destino di emarginazione sociale e lavorativa. Precisamente come quarant’anni fa facevano le scuole differenziali e speciali, che prendevano i figli dei nostri emigrati del sud. Erano bambini normali, il cui limite era soltanto il dialetto e nella deprivazione culturale familiare, ma venivano messi in classi in cui poteva succedere che la prima si dovesse fare due volte, nello stesso modo la seconda, e così via: catalogati insieme ai disabili, ricevevano un tipo di educazione impoverita, che li condannava nel futuro ad un percorso lavorativo di quart’ordine. Un risultato analogo viene prospettato nell’oggi per i figli degli immigrati stranieri, anch’essi bambini normali il cui limite è solo nel non conoscere la lingua del Paese che li accoglie.
A ben guardare, l’atteggiamento della scuola verso i disabili e quello verso gli immigrati hanno un tratto in comune, quello di prevedere una soluzione valida per tutti, sempre per la paura “che si sentano esclusi”. E la soluzione è “tutti in classe”, senza tener conto delle diverse esigenze, per esempio dell’insofferenza al rumore di molti bambini autistici, o, appunto, della necessità di imparare la lingua italiana per seguire le lezioni.
C’è, quindi, l’esigenza di organizzarsi in modo che nella scuola l’obiettivo prioritario sia quello di dare a ogni bambino e ragazzo un percorso educativo adeguato ai suoi bisogni, presenti e futuri: negare questo diritto è la forma peggiore di esclusione.
Michele Zappella, Neuropsichiatra dell’età evolutiva (Corriere della Sera)