Se fossi
nato negli anni duemila sarei stato etichettato “bullo”. Non ho dubbi.
La vicenda della ragazzina di Pordenone che si è gettata dalla finestra
dopo aver lasciato un biglietto ai suoi compagni con scritto “adesso
sarete contenti”, mi ha riportato alla memoria la mia pre-adolescenza.
A dodici-tredici anni, alle medie, avevo preso di mira Mirko: troppo
secchione, troppo “leccapiedi”, troppo servile con i prof.
Quel ragazzino mi infastidiva per quel modo di fare un po’ saccente, da
primo della classe. Feci alleanza con altri compagni e gli smontai
pezzo per pezzo la bicicletta. Non ricordo bene il fatto ma ho ben
presente la reazione di Mirko e dei suoi genitori: il compagno di
classe per anni non mi rivolse la parola e i suoi genitori persino in
età adulta faticarono a salutarmi. Nessuno mi scoprì. Non subii alcuna
punizione a scuola e tantomeno a casa.
Cos’era successo? Perché mi ero trasformato in un “bullo”?
Stamattina aprendo i giornali, chiaramente, sono tutti contro i
“bulli”. Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini da Auschwitz
predica: “Anche i giovani devono imparare ad avere un’etica: quella
della responsabilità a comportarsi in modo responsabile, senza
prevaricare i compagni”. Il presidente del Senato Piero Grasso ricorda
l’importanza di approvare la legge sul cyberbullismo. La deputata di
Forza Italia Annagrazia Calabria chiede più psicologi in classe.
Ma chi sono questi bulli?
Sono anche loro nostri figli come quella ragazza di Pordenone. Fragili
come lei o forse in maniera diversa. Sono quelli che non amano la
nostra scuola, soprattutto le “medie”, anello debole del sistema
dell’istruzione. Capitò anche a me: in quella scuola mi sentivo
inascoltato, demotivato, non valutato. Sono quelli che non trovano un
prof che li ascolta. Sono quei ragazzi che bocciamo, cataloghiamo come
“svogliati”, “fannulloni”, “disagiati”.
Qualche anno fa sui banchi di scuola incontrai Simone. A nove anni
chiedeva soldi in cambio di figurine sequestrate al compagno. Non
apriva un libro. A casa in una sola stanza aveva due televisioni: una
per le partite, una per il “Grande Fratello”. Non lo considerai un
“bullo”. Non chiamai uno psicologo. Lo misi in cattedra, al posto mio.
Io facevo lezione dal suo banco e lui stava in cattedra. Arrivò alla
fine della scuola primaria che iniziò persino ad aprire il libro. Alle
medie l’hanno “perso”. Oggi, 17 anni, lo sento ancora: è solo, non ha
amici, non va a scuola. Così è stato per Davide, etichettato “bullo” da
tutti i genitori. Ricordo ancora la mamma di una mia allieva: “Mia
figlia deve venire a scuola felice. Non mi interessa il disagio della
famiglia di quel ragazzo”. Quante chiacchierate nei corridoi con
Davide, quanti “patti” fatti tra me, lui e papà; quante volte ho chiuso
il libro di geografia per riflettere insieme su quanto era accaduto.
Non servono psicologi, nemmeno progetti. Tantomeno una legge.
Abbiamo bisogno di maestri e professori che ascoltano, che si
affiancano a questi ragazzi, che non usano il verbo “bocciare”. Abbiamo
la necessità di tornare a fare educazione civica, alla cittadinanza,
non di scrivere il decalogo del comportamento: “Si alza la mano per
parlare”; “Si portano a scuola i quaderni”; “Ci si ascolta”. I ragazzi
ci chiedono solo una cosa: ascolto. Dobbiamo imparare a parlare un po’
meno per raccogliere le loro storie. Quelle dette e non dette. La
ragazza di Pordenone ha diritto alla felicità allo stesso modo di quei
ragazzi che hanno bisogno di capire quello che hanno fatto. Non sono
“bulli”, sono ragazzi.
Alex Corlazzoli
Ilfattoquotidiano.it