Nel paese delle deputate
ex veline (o meglio delle adolescenti che sognano di diventare veline
o, in subordine, deputate), dei ministri inadeguati e inquisiti (e
talvolta ministri in quanto inquisiti), dei figli e degli (o delle)
consorti/amanti dei potenti destinati a esser potenti (ma chi può
biasimare un genitore amorevole, un coniuge devoto o un papi generoso),
aleggia incontrastato il “pensiero
unico” della meritocrazia. Ecco
che riforme deformanti e tagli umilianti colpiscono la società
intellettuale, che si ostina a voler mangiare (con la) cultura,
con indiscriminata e vìndice virulenza, nel sacro nome della
meritocrazia, ideologia d’antan attraverso cui dominanti e forti sono
costretti a convalidare e difendere la loro posizione e la loro forza,
quasi all’altezza delle aristocrazie del passato, di cui sono legittimi
eredi e che, in diretto contatto con Dio, erano capaci di nascondere
l’inesorabile disumanità dei loro privilegi dietro la distinzione delle
abilità e dei comportamenti (un’ideologia peraltro che maggioranze
plaudenti alle pensose riflessioni di arguti “terzisti” e minoranze
silenziosamente consenzienti mostrano di preferire alla democrazia).
Certo i diffusi meriti culturali, al plurale e con tutte le lettere
rigorosamente miniscole, fanno correre il rischio a questo stesso paese
di vedere crescere le proprie conoscenze e migliorare la loro
trasmissione, ma come abiti appena dignitosi da indossare ogni giorno
per lavorare, non come preziose risorse per competere in
un’appassionante gara dall’esito scontato (che piace tanto a chi ha la
certezza di vincere) tra i forti e i deboli, opportunamente slegate da
atteggiamenti che espongono gli spiriti più vigorosi alla corruzione,
cioè dalla motivazione a contribuire alla qualità dei saperi e della
vita di tutti, dalla fiducia dei maestri, dalla solidarietà dei pari.
Guardiamoci dunque dal pensare criticamente, che mette in questione
tale alata concezione elitaria e classista del merito e l’ideologia
meritocratica di cui è parte, insieme all’opportunismo, così
moderatamente centrista, delle “anime belle” che promuovono le virtù
per salvaguardare quei vizi che solo le virtù sono in grado di
alimentare, che cioè sono impegnati a riprodurre un modello di
formazione basato sulla frustrazione e sul sacrificio (una volta si
diceva “per abituare i giovani alla selezione della vita e della
Democrazia Cristiana” e anche oggi si dice una cosa simile), capaci di
generare quell’aggressività e quell’urgenza di rivalsa di cui c’è tanto
bisogno nella nuova società dell’amore.
D’altronde bisogna riconoscere che le
soluzioni prospettate ai problemi che affliggono il mondo della scuola
e dell’università sono in linea con il meglio della nostra storia, in
quanto cambiano molte cose, se non tutto, per non cambiare nulla e
mantenere tutte le contraddizioni non risolte di questo nostro lungo
inizio secolo (1980-2010), in particolare tra la pervicace domanda di
democrazia e le moderne tendenze aziendalistiche (nella scuola) o i
pre-moderni residui feudali (nell’università); così come sono in
grado di riutilizzare vecchi ma ancora lucidi armamentari del
revisionismo storico e della mistificazione politica, come l’idea, che
da qualche parte riemerge insieme ad altri residuati, di “blocco”
generazionale che unisca nella lotta (ma soprattutto nella
rassegnazione) i giovani di destra e di sinistra, vecchia paccottiglia
culturale ma ancora ben quotata.
Nell’accogliere le complesse e meritocratiche soluzioni offerte dal
mercato politico, è anche necessario prendere le distanze da ciò che è
rivendicato come dovuto nell’età dei diritti, per il solo fatto che è
stato conquistato attraverso lotte pluridecennali e senza tener conto
che è stato compromesso e rischia di essere liquidato in pochissimo
tempo: cittadinanza, anche per chì è reso clandestino da leggi
xenofobe; stabilità e sicurezze per chi lavora; formazione umana e
civile e conoscenza a prescindere dalle condizioni oggettive e
soggettive di partenza; uguaglianza come principio formale, e quindi
come metodo, e come pratica, quindi obiettivo concreto da realizzare
qui e ora; democrazia come pensiero critico e come azione innovativa;
libertà come percezione dell’altro e consapevolezza che l’utile di
ciascuno non può essere scisso dal benessere di tutti (ma per fortuna
di tutto questo non c’è quasi traccia nell’orizzonte valoriale e negli
elenchi da leggere in televisione della sinistra più responsabile).
Mera retorica sui diritti,
autorevolmente definiti recentemente un lusso, come quella
sull’insegnamento e sulla ricerca liberi e messi nelle condizioni di
liberare, sulla cultura capace di contrastare la smemoratezza,
attraverso il rispetto e la cura di ciò che rimane del passato, di
interpretare il presente e di immaginare il futuro, su un’informamzione
coraggiosa che contribuisca a denudare il re. Tutti in verità
generi non commestibili per la parte migliore, più moderna e meritevole
(nonché meritocratica) della nostra classe dirigente, che rischia di
star male per la semplice esposizione a essi. Ai cittadini elettori e
telespettatori non resta che salvaguardare la salute fisica e mentale
dei migliori (politici moderati, a-politici volenterosi, anti-politici
anti-velleitari, imprenditori miracolosi, banchieri miracolati),
plaudendo proni all’insindacabile distribuzione delle ricchezze e dei
poteri operata dalla “mano invisibile” del Dio, più che trino,
quattrino.
Tito Martello
redazione@aetnanet.org