Lo scrutinio, si sa, è
segreto. Difficile quindi pretendere di fare un’ analisi attendibile di
ciò che è successo o che accadrà nelle aule delle scuole superiori dove
i docenti hanno valutato i loro allievi (se hanno adottato il
trimestre) o li valuteranno (se vige il quadrimestre).
Scrivo a caldo, sulla scorta delle esperienze personali e di ciò che ho
sentito raccontare dai tanti docenti che conosco e incontro nelle
scuole. L’Italia è lunga, ed è inutile dire che le differenze non sono
solo sfumature. Ma esistono pesi e misure differenti nella valutazione
persino in sezioni diverse della stessa scuola.
Non è sul valore e sulla “presunta” - e mai dimostrata - oggettività
della valutazione che vorrei porre l’accento in questo scorcio di
quadrimestre. Né sui criteri per una buona valutazione. Anche se
verrebbe da chiedersi: che cosa si valuta veramente negli scrutini? Ciò
che c’è o ciò che dovrebbe esserci? Le potenzialità o gli atti? Il
processo o il prodotto?
Vorrei invece soffermarmi su due convitati eccellenti al “banchetto”
della valutazione: uno troppo ingombrante, l’altro pressoché
inesistente. Il primo è così invadente che, ormai, lo spazio per la
discussione sui ragazzi, sulle strategie per aiutarli e motivarli,
insomma sul valore educativo del voto è così risicato da diventare
spesso inconcludente o inefficace.
Non che non si discuta durante gli scrutini, anzi. Ma il confronto,
talvolta anche acceso, è spesso legato ad aspetti formali: 6 o 7 in
condotta? Se si mette 6, però, ci sono le note sul registro; e le
assenze sono veramente molte? E si seguono i criteri stilati in
collegio? E così via.
Certo, esistono anche consigli di classe in cui, fortunatamente, del
valore di un 6 o di un 7 per quel ragazzo, in quella classe, per la sua
crescita personale si discute; e si ipotizza allora anche che cosa
spetta ai docenti per tirarlo fuori da quella situazione, perché
sanzionare un livello non significa affatto aver risolto la questione.
Da lì in avanti, che sia la condotta o il profitto in qualsiasi
disciplina, il problema non è - come verrebbe da pensare - del ragazzo,
ma proprio del docente, meglio dei docenti.
Ma lo spazio per discutere di ciò non c’è, tantomeno la volontà di
farlo e non già per incuria dei professori, quanto per evidente
sottovalutazione dell’azione formativa della valutazione da parte della
scuola come struttura e istituzione, perlomeno di quella superiore. La
scena è tutta presa dal convitato ingombrante che - si sarà capito - è
la burocrazia di Stato, ingorda e onnivora, capace di assorbire tempo,
energie, motivazione e passione dei docenti.
Ho visto tanti (troppi) insegnanti rinunciare a intervenire soffocati
dalle incombenze burocratiche: i voti sui cartelloni, le lettere da
spedire, le assenze da conteggiare, la corrispondenza da verificare tra
i voti e i giudizi, il verbale da vergare, le firme da apporre sui
cartelloni, gli statini da consegnare (ma in epoca di scrutini
elettronici, a che cosa servono gli statini?), i registri da
compilare... e chi più ne ha, più ne metta.
E lo scrutinio elettronico, che dovrebbe semplificare le operazioni, in
realtà è ancora più svilente e impersonale: lettura veloce dei voti,
sottolineatura delle insufficienze e delle assenze, e poi via con le
lettere ai genitori, la definizione dei corsi di recupero, le firme,
ecc. E quest’anno anche la compilazione dei piani personalizzati per
gli studenti con disturbi nell’apprendimento. Ma dov’è finito lo
studente? Non si stava valutando, cioè “dando valore” proprio a lui?
E il docente, anziché essere spinto a fare e a brigare per i suoi
alunni, si ritira. Si vive sempre sotto l’incubo del ricorso, della
telefonata dei genitori che protestano, del padre o della madre che
potrebbero far esplodere il caso pubblicandolo sui giornali, dei
ragazzi (soprattutto se maggiorenni) che protestano vivacemente. Meglio
il quieto vivere. Occorre tutelarsi. E allora carta sopra carta.
Lettere sopra lettere. E corsi istituzionali per il recupero, uno dopo
l’altro. Come se il rapporto educativo - unica vera soluzione - potesse
essere sostituito dalla sequela fedele delle leggi (dello Stato e della
scuola stessa nella sua autonomia). A me pare che gli interventi
programmati e istituzionali (corso di recupero, help, sportelli,
recuperi in itinere e così via) nella loro lodevole intenzione, tanto
più così comicamente ridotti nelle ore e nell’articolazione (solo
italiano in prima, solo matematica in seconda, solo per 10 alunni in
terza... perché non ci sono i fondi) non possano sostituire
un’attenzione reale del docente nei confronti dei propri studenti.
Burocrazia omnivora, dicevo, bulimica al punto d’aver ingoiato l’altro
convitato eccellente: le competenze. Ricordiamo che al termine del
biennio della scuola superiore, da quest’anno, per effetto del D.M. 27
gennaio 2010, n.9, sarà obbligatoria la certificazione delle competenze
durante lo scrutino finale.
Eppure quest’oggetto didattico, tanto è citato, nei testi del Riordino
della scuola superiore appena varato; tanto è menzionato dai dirigenti
nei collegi dei docenti; tanto è evocato nei documenti, quanto è
assolutamente assente dalla pratica didattica. Un fantasma. E infatti,
a parte qualche eccezione, negli scrutini della scuola secondaria non
ha neanche fatto capolino.
Probabilmente, poi, dovrà spuntare alla fine dell’anno, quando verranno
rispolverati i lunghi elenchi di competenze che le scuole (le più
zelanti) avranno redatto in fase di progettazione d’inizio d’anno.
Ma la domanda è: come si potranno valutare le competenze senza che sia
stata agita una didattica funzionale ad una loro - eventuale -
espressione? Come sarà possibile valutare un oggetto che è rimasto
un’encomiabile declaratoria d’intenti stesi sulla carta? O che, nella
migliore delle ipotesi, è stato declassato alle molto più maneggevoli
abilità? Insomma, come si può valutare un oggetto... che non c’è?
Tra i mille problemi che si attorcigliano attorno alla valutazione ne
ho colti solo due, e forse neppure i più significativi: ma sono due
aspetti che si presentano oggi come spunti per una possibile
riflessione. Il primo, perché la scuola potrebbe morire di bulimia
burocratica, che sta già paralizzando la libera - e fruttuosa -
iniziativa di tanti docenti attenti e attivi. Il secondo, perché
l’istruzione potrebbe perdere, per anoressia delle competenze, una
possibile occasione per passare ad una scuola dell’esperienza, per
rendere più vere e significative le conoscenze.
(da Il Sussidiario)
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