La funzione di
chi scrive sarebbe fondata, durante l'epoca moderna, su quella
sicurezza che ancora lotta di cui si parlava nell'intervento
precedente. Si tratta di un convincimento costruito, il più delle
volte, su una incrinatura, su un elemento dissonante a proposito del
quale tantissimi intellettuali hanno detto la loro. Qui mi piacerebbe
far riferimento al modo in cui essa viene congegnata nella Scomparsa di
Majorana, bellissimo racconto-inchiesta che Sciascia dedicò nel 1975 al
fisico catanese.
Sul 'caso' suscitato dal presunto suicidio di Ettore Majorana, avvenuto
il 25 marzo 1938 sul postale che, da Palermo, avrebbe dovuto condurlo a
Napoli, si è detto molto: anche recentemente si è creduto che una foto,
scattata in Argentina nel 1955, potesse ritrarre il volto di Majorana,
inducendo il procuratore aggiunto di Roma a condurre, nel 2011, nuove
indagini. Del fascicolo fa parte anche la foto qui riportata che
accompagna un articolo di Fiorenza Sarzanini pubblicato il 7 giugno di
quello stesso anno sul «Corriere della Sera» e che attesterebbe il
fatto che Majorana, assunta un'altra identità, si sarebbe stabilito in
Sudamerica, proseguendo per conto suo le ricerche iniziate negli anni
Venti presso il Dipartimento di Fisica di Roma. Le ipotesi sulla
scomparsa del geniale scienziato seguono, come è noto, almeno quattro
piste: esse portano in Sicilia, in Germania e, come si è visto, persino
in Sudamerica; secondo Sciascia egli si sarebbe ritirato nella Certosa
di Serra San Bruno in Calabria dove avrebbe incontrato un membro
dell'equipaggio del B-29 che sganciò l'atomica su Hiroshima.
Alcuni aspetti della ricostruzione prodotta da Sciascia − senza doversi
necessariamente curare della sterile e sin troppo dibattuta questione
della sua veridicità − mi consentono di prendere spunto
dall'inquietudine di Majorana per desumere una disposizione poetica che
è possibile assimilare, forse neanche troppo sorprendentemente, a
quella dello scienziato: «la scienza − avvisa Sciascia sin dalle prime
pagine della Scomparsa −, come la poesia, si sa che sta ad un passo
dalla follia» (l'edizione del racconto cui ci si riferisce è inclusa
nel secondo volume delle opere curate per Bompiani da Claude Ambroise).
Il Majorana di Sciascia, senza alcuno sforzo di volontà, porta la
scienza con sé, come se essa fosse «un segreto dentro di sé, al centro
del suo essere» (p. 224) e non − come per Fermi e il suo gruppo −
qualcosa da aprire o da svelare. È proprio in virtù di tale assetto,
dotato di una misura imprescrittibile, che egli riesce ad avvertire
«l'essenza reale del problema fisico» (p. 219): da un lato, ciò si
appoggia su quell'innato senso di estraneità («che a volte arrivava ad
accendersi in antagonismo», p. 223) che, secondo Sciascia, impedisce a
Majorana di fare gruppo con gli altri scienziati dell'Istituto di via
Panisperna (come si sa, sede del Dipartimento di Fisica a Roma);
dall'altro, però, gli consente di riconoscere chi vive il problema
della scienza in termini simili ai suoi, includendolo, cioè, «dentro un
vasto e drammatico contesto di pensiero» (p. 238).
È quanto avviene, per esempio, in occasione dell'incontro a Lipsia nel
gennaio del 1933 con Werner Heisenberg, fisico tedesco cui si deve la
prima formalizzazione della meccanica quantistica ma anche, come già si
è detto precedentemente, tra i primi a prendere coscienza del fatto che
quanto si conosce può limitare ciò che si può conoscere. Sciascia
racconta di come Majorana scrivesse di Heisenberg all'interno di quasi
ogni lettera spedita ai genitori e di come il rapporto tra i due fosse
condotto su toni amabili e improntato sulla collaborazione e su una
stima reciproca che andava cementandosi anche in relazione agli
orribili accadimenti che stavano avendo luogo in Germania proprio in
quei mesi. Un rapporto − ed è facile intuirlo dal modo in cui di esso
parla Edoardo Amaldi, fisico a sua volta, collaboratore di Fermi e
biografo di Majorana largamente citato da Sciascia − che non si
consumava soltanto sul piano della ricerca scientifica, contemplando,
più di ogni altro, quello umano.
In fin dei conti, non mi interessa capire quanto Sciascia abbia messo
di sé nel personaggio di Majorana; mi sembra, invece, utile precisare
che il suo ritrovarsi in quell'uomo inadatto − se scienziato, folle o
poeta poco cambia − non significa in alcun modo farne un modello
atemporale sconnesso dalla realtà e posto fuori dal tempo; al
contrario, vuol dire stabilire un modo, dissonante si è detto, in cui
lo scienziato − o, è la medesima cosa, il poeta − possa stabilirsi
nella realtà e reagire alla sua complessità per il tramite di un genio
(quello di Majorana, quello di Heisenberg e, perché no?, quello di
Sciascia) che, senza saperlo, si lega strenuamente alla vita come
anche, superata la sua misura, alla morte.
Alessandro
Gaudio - Ecodeimonti.it