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Bullismo e Cyberbullismo: Lettere a confronto: un ragazzo scrive ad un professore e un professore scrive ai suoi alunni

Redazione
Lettere a confronto di un ragazzo che scrive ad un professore e ne apprezza le doti relazionali ed educative e un professore che scrive ai suoi alunni commentando l’azione di bullismo di cui è stata vittima la ragazza di Pordenone.


Un ragazzo scrive ad un professore e ne apprezza le doti relazionali ed educative

Salve Prof,
penso che noi uomini siamo delle creature abbastanza strane, direi un po’ infelici, da sempre portiamo avanti una guerra continua con noi stessi per riuscir ad ottenere l’approvazione di gente che se chiediamo loro, non ricordano neppure il nostro nome. “Un bel sorriso, scioltezza linguistica, precisione di linguaggio, sguardo forte e andrà tutto bene” mi sono sempre detto. Ho sempre pensato che la prima impressione sia quella che più conti, un primo passo fondamentale per farsi conoscere. Pian piano ho continuato ad adagiare questa frase come un vero e proprio vero sulla mia anima, una protezione dal mondo esterno , un mondo pieno di pregiudizi, pronto a sputare sentenze. Il velo è ormai diventato un muro, una fortezza impenetrabile, per far in modo che nessuno possa mai mettere a nudo la mia anima e poterla ferire, semplicemente non accettandola così per com’è. Molti dicono di sapere tutto di me, di conoscermi da una vita, ma nessuno riesce a notare il guscio che mi avvolge, indifferenza, superficialità, insensibilità, non fanno parte di me, sono solo degli accompagnatori quotidiani, delle guardie del corpo, che mi seguono lungo il cammino della vita.

Ed è per questo che sento il bisogno di parlare di me, affinchè qualcuno possa dire di conoscermi realmente, poi però ci ripenso e mi rammendo che non avrebbe alcun senso aprire le porte del mio mondo a persone incerte di voler entrare, a persone che giudicherebbero tutto come ridicolo. Caro Prof. , a questo punto si starà chiedendo il perché le stia dicendo tutto ciò. Bene, il giorno che mi preparavo ad incontrarla non pensavo ad altro che farle una buona impressione, eccola lì, in procinto di presentarsi, osservandola, nulla di particolare, un uomo come tanti, semplice, eccetto gli occhi, si dice che gli occhi siano le finestre dell’anima, la porta del cuore, quegli occhi azzurri di un cielo limpido e infinito, degli occhi che accompagnavano le sue parole, come gli strumenti accompagnavano le voci in un opera, in quegli occhi ho visto molto più che un bel colore, ho visto un’ anima umile, la voglia di insegnare, il coraggio, l’amore per ciò che fa, per come lo fa, ho visto un cuore immenso, pronto a dare e ricevere amore, ma soprattutto un’anima sencera.

Non mi hanno mai impressionato le belle parole, penso che tutti siano capaci di dirle, lei però ha espresso dei concetti stupendi, alcuni li avevo già sentiti altre volte, erano stivati nella mia mente, sugli scaffali delle belle parole, parole vuote ma d’effetto, bhe … quelle parole sono finalmente riuscite ad essere riempite, scendere dalla mia mente e fondersi nel mio cuore, lei ha dato un significato a delle parole che prima citavo come un insieme di lettere per addolcire ciò che dicevo. Di professori al mondo ne esistono molti, ma nessuno durante tutti questi anni di scuola mi ha insegnato o sarebbe stato capace di insegnarmi ciò che lei in poche ore mi ha insegnato. Mi ha insegnato l’amore, un amore visto come un affetto incondizionato e privo di ogni altro interesse che non sia il bene altrui, un amore da cui nasce la speranza che mai si deve perdere, la speranza che le cose un giorno cambieranno, che i sogni uniti al sacrificio prima o poi si realizzeranno, mi ha insegnato a non mollare mai a dare il meglio di me, perché nessuno durante la mia vita mi porgerà la vittoria su un piatto d’argento, mi ha insegnato che apparire conta ben poco ed essere se stessi è la chiave per farsi conoscere realmente, che ognuno ha i propri problemi piu o meno gravi, che meno o più facilmente posso essere risolti… ho imparato che persone stanno ancora cercando di imparare ciò, e che altri si rifiutano di farlo, ho imparato che la vita non sempre è giusta, che la legge a volte sbaglia, ma che nonostante tutto non bisogna mai smettere di aver fiducia in se stessi e di credere nella giustizia, se non terrena, quella divina.

Mi ha insegnato infine che ognuno di noi nella propria vita può cadere, attraversare dei tunnel bui, come a me, come a tutti, penso possa capitare anche a lei, che nel caso dovesse affrontare una giornata no, non potrebbe mai dimenticare il sorriso a casa perché è ciò che insegna, la felicità, qualcosa che tutti possediamo, ma a cui teniamo così tanto da tenerla nascolta. Lei non è un semplice professore, è un vero e proprio maestro di vita e se un giorno dovessi crollare, oltre al calore della mia famiglia chiedere il suo sostegno; mi è stato insegnato a dar del lei a persone più grandi di me, quindi ti chiedo di perdonarmi se da adesso ti darò del tu, ma se un giorno dovessi essere tu a crollare ed io ne dovessi avere la maturità ricordati che oltre al cuore di Dio troverai la mia mano tesa verso di te pronta a sorreggerti.

Nicola, ti ringrazio per il semplice fatto di essere te stesso sempre e comunque, sappi che dal giorno in cui ci siamo salutati la mia anima non fa altro che cercare di abbattere mattone dopo mattone i muri che la rinchiudono.
Con sincerità e amore,
Christian Orilia

Un professore scrive ai suoi alunni commentando l’azione di bullismo di cui è stata vittima la ragazza di Pordenone

Oggi una ragazza della mia città ha cercato di uccidersi.
Ha preso e si è buttata dal secondo piano.
No, non è morta. Ma la botta che ha preso ha rischiato di prenderle la spina dorsale. Per poco non le succedeva qualcosa di forse peggiore della morte: la condanna a restare tutta la vita immobile e senza poter comunicare con gli altri normalmente.
“Adesso sarete contenti”, ha scritto. Parlava ai suoi compagni.
Allora io adesso vi dico una cosa. E sarò un po’ duro, vi avverto. Ma c’ho ‘sta cosa dentro ed è difficile lasciarla lì.
Quando la finirete?
Quando finirete di mettervi in due, in tre, in cinque, in dieci contro uno?
Quando finirete di far finta che le parole non siano importanti, che siano “solo parole”, che non abbiano conseguenze, e poi di mettervi lì a scrivere quei messaggi – li ho letti, sì, i messaggi che siete capaci di scrivere – tutte le vostre “troia di merda”, i vostri “figlio di puttana”, i vostri “devi morire”.
Quando la finirete di dire “Ma sì, io scherzavo” dopo essere stati capaci di scrivere “non meriti di esistere”?
Quando la finirete di ridere, e di ridere così forte, quando passa la ragazza grassa, quando la finirete di indicare col dito il ragazzo “che ha il professore di sostegno”, quando la finirete di dividere il mondo in fighi e sfigati?
Che cosa deve ancora succedere, perché la finiate? Che cosa aspettate? Che tocchi al vostro compagno, alla vostra amica, a vostra sorella, a voi?
E poi voi. Voi genitori, sì. Voi che i vostri figli sono quelli capaci di scrivere certi messaggi. O quelli che ridono così forte.
Quando la finirete di chiudere un occhio?
Quando la finirete di dire “Ma sì, ragazzate”?
Quando la finirete di non avere idea di che diavolo ci fanno 8 ore al giorno i vostri figli con quel telefono?
Quando la finirete di non leggere neanche le note e le comunicazioni che scriviamo sul libretto personale?
Quando la finirete di venire da noi insegnanti una volta l’anno (se va bene)?
Quando inizierete a spiegare ai vostri figli che la diversità non è una malattia, o un fatto da deridere, quando inizierete a non essere voi i primi a farlo, perché da sempre non sono le parole ma gli esempi, gli insegnamenti migliori?
Perché quando una ragazzina di dodici anni prova a buttarsi di sotto, non è solo una ragazzina di dodici anni che lo sta facendo: siamo tutti noi. E se una ragazzina di quell’età decide di buttarsi, non lo sta facendo da sola: una piccola spinta arriva da tutti quelli che erano lì non hanno visto, non hanno fatto, non hanno detto.
E tutti noi, proprio tutti, siamo quelli che quando succedono cose come questa devono vedere, fare, dire. Anzi urlare. Una parola, una sola, che è: “Basta”.

prof Enrico Galliano di Pordenone








Postato il Giovedì, 04 febbraio 2016 ore 03:30:00 CET di Giuseppe Adernò
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