Nel sentire
collettivo odierno, parecchi dei vizi capitali non sono più
considerati, né vissuti, come tali, ovverosia come frutto dell'eccesso,
della subordinazione della ragione all'istinto. E' cambiata addirittura
la stessa terminologia definitoria di certi vizi capitali: oggi
l'accidia (tepidezza nel seguire il bene: "l'amor del bene, scemo/ del
suo dover" Purg. c.XVII, vv.85-86) si chiama depressione; i peccati di
gola sono considerati forme di relazione patologica nei confronti del
cibo: è il caso della bulimia ( eccesso smodato di cibo ingurgitamento
senza misura); o, viceversa della anoressia (rifiuto sconsiderato del
cibo); l'ira (incapacità di autocontrollo) viene considerata, nei suoi
eccessi, disagio psichico, e così via. E la lussuria? Essa non è
considerata dalla morale comune come un peccato, quanto piuttosto come
una libera disposizione alla sessualità.
Ma il "laico" Dante (M. Barbi), uomo di ragione, oltre che di fede, ci
ricorda che la cultura cristiana è " una cultura alta della
responsabilità"; ci ricorda a noi del XXI secolo che molti peccati sono
il prodotto dell'acquiescenza morale, di scelte sbagliate, forme di
schiavitù del godimento. E si badi bene: la responsabilità di cui parla
Dante - e anche qui è la sua modernità - prima ancora di essere in
rapporto a una valorialità ontologica, è una responsabilità per
l'alterità del prossimo, per l'altro uomo, per il suo nome proprio,
per il suo destino.
Non è mai una responsabilità astratta, generica.
Nuccio Palumbo
antonino11palumbo@gmail.com