
Già il presepe era nei nostri occhi ed i pastori più antichi ogni anno venivano riparati. Io amavo di più l'albero che arrivava superbo a casa portato da Salvatore, il contadino fedele, col viso scavato e bruno, come certe statue di santi nelle chiese, gli occhi vivaci e le mani virtuose. Lui portava doni, le arance bellissime, le verdure dai fogliami folti come capelli di donna, il cappone da lui curato, un formaggio piccante che trasudava olio. Aiutava mia madre a sistemare l'albero e rimaneva con noi a volte anche a pranzo.
Poi la scena si svuotava di tutto e spiccava la gonna a ruota di mia madre, esile su una scala, intenta a vestire l'albero nelle parti più alte su fino in cima. La gonna ondeggiava verso sera davanti alle lucine dell'addobbo e i suoi occhi brillavano di promesse. Sceglievo con mio fratello i pupazzi, l'omino di neve, le monete di cioccolato e dagli scatoloni spuntava sempre una qualche meraviglia. Quell'albero non finiva mai, ancora c'erano giorni per aggiungere o togliere. Ce lo raccontavamo ogni giorno.
Non c'era allora il calendario dell'avvento, ma ogni giorno noi aprivamo una nuova finestrina nei nostri pensieri e le fiabe, le foreste incantate, la neve soffice come trina ci accompagnavano. Lo zampognaro veniva almeno due tre volte con le sue note antiche da quello strumento di pelle d'animale e canne che pareva arrivassero al cielo, lì proprio dove la luna si era fermata un istante.
Poi dalla grande cucina esalava l'odore del miele caldo, fitto di bucce d'arancia ed era il segnale dei dolci particolari che lei, mia madre, preparava con dovizia e destrezza. Così il Natale...
Sara Gentile